E’ finita l’era di Teresa Principato nella caccia al boss latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. E’ scaduto, infatti, l’incarico del magistrato per coordinare le indagini sulla ricerca di Messina Denaro. Dieci anni di successi, soprattutto in merito al cerchio magico di protezione del boss, che rimane però sempre più inafferrabile, tanto che non sono in pochi ormai a pensare che possa essere addirittura morto.
“Messina Denaro è protetto da una rete massonica. Riteniamo che il boss abbia ormai rinunciato ad esercitare il suo governo mafioso sulla provincia di Trapani”, è stata una delle ultime dichiarazioni pubbliche della procuratrice aggiunta di Palermo, audita in Commissione antimafia.
Sembra quasi una specie di resa. «Matteo Messina Denaro è abituato a tutti gli artifici della latitanza: dopo un arresto e dopo che le attenzioni degli investigatori si soffermano su una persona, immediatamente cambia strada e investe su qualcosa di diverso» dice Principato.
«Messina Denaro in questi casi immediatamente cambia strada – spiega Principato – va all’estero, non gli mancano le occasioni e i luoghi in cui rifugiarsi in tutta sicurezza. E’ una caratteristica di questo latitante: il fatto di procedere a degli arresti, la strategia della cosiddetta «terra bruciata” per lui non è adeguata, l’ho capito da un pò di tempo. Abbiamo proceduto all’arresto di quasi tutti i familiari di sangue di Messina Denaro – sorella, cugini, cognati, tutti coloro che gli erano vicini – io pensavo che questo potesse suscitare nell’uomo una reazione ma l’uomo non è normale, è molto freddo. Dopo otto anni di studio è quasi normale che si ragioni come se lo si fosse conosciuto». Altro momento della strategia per la cattura del boss è quello dei provvedimenti di confisca, «essendo lui così profondamente legato al denaro e ai suoi interessi”: i provvedimenti di sequestro e confisca superano milioni di euro. «Pensate – ha detto il magistrato – che solo la catena della Despar è stata oggetto di confisca per 850 milioni».
«A parte gli arresti e i provvedimenti – ha proseguito – abbiamo operato con delle azioni di disturbo concordate nei confronti di persone ben delineate che anche in passato lo avevano in qualche modo agevolato o che sapevamo vicine a lui, con una azione assillante, anche perché (siamo a dicembre 2014) sono riuscita in una operazione: firmare un protocollo con il Ros e lo Sco per una indagine comune. Anche il nipote del cuore, Francesco, destinato a essere il suo successore, che già a violenza lo aveva eguagliato se non superato, è stato arrestato e sottoposto al 41 bis. Tutto questo per ottenere un affievolimento del consenso nei confronti di questo latitante. Era intollerabile – ha sottolineato Principato – che lo Stato rinunciasse alla cattura di un latitante che dal ’93 sfugge agli organi dello stato e rappresenta per Trapani una primula rossa, da imitare, ammirare, verso la quale provare una certa connivenza».
«Questi sistemi – ha prosegue Principato – hanno sortito dei risultati, anche se non quelli sperati. Si è rotto il muro di omertà che tradizionalmente ha circondato la famiglia di Matteo Messina Denaro. Ha cominciato – pur non richiedendo di essere inquadrato come collaboratore – il cugino Lorenzo Cimarosa che dopo l’inizio di una timida collaborazione (era stato già detenuto tre anni per favoreggiamento) ci ha aiutato ad inquadrarlo, a capirne la struttura mentale. Lo ha definito un parassita, un personaggio che si nutriva del lavoro degli altri senza dare niente in cambio».
Il magistrato ha poi raccontato che vennero messi in carcere altri familiari: «e tutti pensarono ci dovesse essere una reazione» da parte di Messina Denaro. A quel tempo io fui minacciata – ha spiegato il magistrato – di essere destinataria di una partita di tritolo, che coincise con l’arresto dei suoi familiari ma soprattutto con l’ablazione di tanto denaro che per lui è estremamente importante. Non c’è stata solo questa conseguenza: hanno iniziato a collaborare altre due persone. Anche questo è stato un momento di rottura del muro di omertà. Inoltre dalle intercettazioni che sentivamo emergevano vere e proprie lagnanze nei confronti del latitante. Due persone si chiedono in sostanza: se non pensa alla sua famiglia, come può pensare ai trapanesi?»
È da ventiquattro anni che Matteo Messina Denaro ha fatto perdere le sue tracce. Le forze di Polizia, carabinieri, Guardia di Finanza e Dia sono impegnate costantemente nella sua ricerca e in questi anni hanno fatto davvero terra bruciata attorno al superlatitante. Hanno arrestato familiari, fedelissimi, sequestrato beni, ma “Diabolik” (così è soprannominato) l’ha sempre fatta franca probabilmente anche grazie a quelle protezioni altolocate di cui ha parlato la Principato (tornata adesso alla Procura nazionale antimafia). Nell’ultima audizione è entrata maggiormente nel dettaglio rispetto a quanto già riferito nel novembre 2016.
Una pista investigativa porterebbe ad una presenza del boss lontano dalla Sicilia, in Brasile, grazie ad una falsa identità. È in Sud America, dunque, che si sarebbe nascosto. Sarebbe stato visto in compagnia di una donna quarantenne e si farebbe chiamare signor Polizzi.
A parlare di Messina Denaro e delle sue protezioni è in particolare il collaboratore di giustizia agrigentino, Giuseppe Tuzzolino. Numerosi gli accertamenti compiuti su sua indicazione. Diversi mesi fa i poliziotti di New York, per conto della Procura di Palermo, si recarono in un appartamento alla ricerca di una cassaforte da ui indicata. All’interno vi sarebbero dovute essere delle fotografie recenti, contenute in un hard disk, del superlatitante di Castelvetrano. Grazie alle indicazioni del pentito venne trovato il locale, ed anche la cassaforte, ma di quel dispositovo non vi era più traccia. Qualcuno lo ha fatte sparire per tempo? E come mai quelle foto si sarebbero trovate a New York? Misteri continui che ruotano attorno alla figura del padrino che ha raccolto “l’eredità” dei “Corleonesi”.
Misteri che si accompagnano a nuovi interrogativi. Davvero il boss di Castelvetrano ha deciso di nascondersi lontano dal suo territorio? Davvero ha deciso di abbandonare la Sicilia a se stessa?
A dar retta ad alcune intercettazioni registrate nel 2009 sembrerebbe di sì. “Ma anche questo… che minchia fa? Un cazzo! Si fa solo la minchia sua… e scrusciu nun ci deve essere! – dicevano i boss – Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati e tu non ti muovi? Ma fai bordello! Minchia, svita a tutti… inc… inc… uscite tutti fuori sennò vi faccio saltare!”. Anche Totò Riina, intercettato nel carcere “Opera” di Milano, in una delle sue chiacchierate con la “dama di compagnia” Alberto Lorusso, esprimeva chiari segni di insofferenza nei suoi riguardi:
“A me dispiace dirlo questo… questo signor Messina (Matteo Messina Denaro. ndr) questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa…”.
In quei colloqui “u curtu” parlava delle stragi compiute ma anche di quelle da compiere, indicando il bersaglio da colpire, ovvero il pm Nino Di Matteo.
Di quell’attentato ha parlato il boss dell’Acquasanta Vito Galatolo indicando proprio in Messina Denaro come il soggetto che diede l’ordine su input esterni a Cosa nostra.