I latitanti più pericolosi in Italia/1. Il boss Messina Denaro e il criminale Cubeddu

I latitanti più pericolosi in Italia/1. Il boss Messina Denaro e il criminale Cubeddu

2020-04-19T22:40:31+02:00 30th Dicembre, 2018|dove sei matteo, inchieste|

 Sono quattro i super latitanti catalogati “di massima pericolosità” in Italia. Due boss mafiosi, un camorrista, e un criminale specializzato nei sequestri. Latitanti che hanno fatto perdere le proprie tracce e su cui da anni si concentrano le indagini del Gruppo Integrato Interforze Ricerca Latitanti.

Uno lo conosciamo benissimo, è Matteo Messina Denaro, superlatitante di Cosa nostra, boss di Castelvetrano, invisibile dal 1993. Poi c’è il palermitano Giovanni Motisi, boss ricercato dal 1998, Marco Di Lauro, camorrista ricercato dal 2005, Attilio Cubeddu, dell’Anonima sequestri, ricercato dal 1997. Tutti questi latitanti sono ricercati non solo in Italia, ma anche in campo internazionale. Le loro fotosegnaletiche sono appese in ogni Questura, ma girano anche tra le forze dell’ordine estere.

MATTEO MESSINA DENARO
Ultimo superlatitante della “stirpe” dei corleonesi. Nato nel 1962 a Castelvetrano. Ha tanti soprannomi: u siccu, Diabolik, i più usati. Boss della provincia di Trapani, territorio zoccolo duro di cosa nostra, Messina Denaro ha fatto perdere le sue tracce nel giugno del 1993.
Sono 25 anni che Matteo Messina Denaro si è dato alla macchia. Quando i carabinieri andarono a cercarlo nella sua casa di Castelvetrano, ra già sparito, in quei giorni di fuoco per l’Italia intera. Erano i giorni degli attentati in Italia. Milano, Firenze, Roma, i mesi della strategia del terrore di Cosa Nostra. Messina Denaro, giovane rampante di cosa nostra si trovava in vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. Da lì comincia il suo girovagare sfuggendo agli arresti.
Nei mesi successivi all’arresto di Totò Riina fece parte del gruppo di fuoco che organizzò gli attentati dinamitardi nel continente, poi sposò in pieno la strategia della sommersione, facendola sua, di Bernardo Provenzano.

“U sicco”, così lo chiamano, è figlio di don Ciccio Messina Denaro, boss della famiglia di Castelvetrano, legato ai corleonesi, che morì da latitante nel 1998.

Ama le belle donne, le auto scattanti, i videogiochi, le diavolerie tecnologiche. E’ un boss al passo coi tempi, ha figli ma non è sposato. I E’ amante dell’arte, su cui si sono indirizzati molti dei suoi affari. E’ riuscito a mantenere il profilo basso, basta bombe, basta “sparatine”. Anche se è stato condannato per diversi omicidi. “Con le persone che ho ammazzato potrei riempirci un cimitero”, dice di se stesso. Nel 1993 viene sequestrato da un commando di mafiosi il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino, per tentare di bloccare la collaborazione dell’uomo con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre ad organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il ragazzo viene tenuto segregato. Dopo tre anni il piccolo Di Matteo viene strangolato e sciolto nell’acido. E’ tra gli assassini dell’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto, ucciso a Trapani nel ‘93.

Poi basta. Basta sparare, è il tempo degli affari. Riesce a convogliare i capitali di cosa nostra nell’economia legale. Entra nel business dell’energia rinnovabile, della grande distribuzione.
Sono gli anni 2000, sono gli anni in cui comincia la caccia alla primula rossa. La caccia si intensifica dopo l’arresto del suo mentore, Bernardo Provenzano, che passò oltre 40 anni di latitanza, preso a Montagna dei Cavalli, nella sua Corleone, nell’aprile 2006. In quel covo vennero trovati diversi pizzini anche di Messina Denaro. Poi la provincia di Trapani diventa terreno di caccia. Da dieci anni le persone più vicine a Matteo Messina Denaro vengono arrestate, per cercare di stanarlo, per mettere fine al rubinetto della sua latitanza. Ma di lui non c’è traccia. C’è chi lo vuole in Sud America, chi in Africa, chi l’ha visto in Francia, chi nel Nord Italia. Alcune piste lo collocano però in Sicilia, perchè Messina Denaro è sì un boss moderno, ma è sempre legato al suo territorio, è sempre legato al controllo delle attività. C’è chi dice che sia morto. Perchè superati i 50 i problemi di diabete possono essere decisivi in una condizione di latitanza. A cadenza biennale viene rifatto il suo identikit, l’ultima sua foto è quella famosa, con gli occhiali a goccia per coprire lo strabismo. Un immagine, l’ultima prima di scomparire. Prima di cominciare un’invisibilità che dura 25 anni.

ATTILIO CUBEDDU
Attilio Cubeddu non si sa se sia vivo. Avrebbe 71 anni, ed è stato uno degli esponenti di spicco dell’Anonima Sequestri, la banda sarda che sequestrava personalità famose, gente facoltosa, per ottenere cospicui riscatti. Erano il terrore dei ricchi che frequentavano la Sardegna, e non solo.
Nato ad Arzana nel 1947, noto fin da giovanissimo alle forze dell’ordine per i suoi numerosi precedenti penali, prese parte ai sequestri Rangoni Machiavelli e Bauer in Emilia-Romagna, messi a segno entrambi nel 1983, e al sequestro Peruzzi, messo a segno in Toscana nel 1981, e si diede alla latitanza. Arrestato nell’aprile del 1984 a Riccione, fu condannato a 30 anni di carcere.

Al penitenziario ha scontato gli anni della sua pena in maniera impeccabile. Quello che si potrebbe definire un detenuto modello. Questo gli ha permesso di ottenere numerosi permessi premio. L’ultimo, per lo Stato, è stato uno smacco. Nel gennaio del 1997 ottiene un permesso premio, il rientro in carcere era previsto per febbraio. Cubeddu non si fa più vedere, non torna al carcere di Nuoro e si dà alla latitanza. Durante la latitanza si rende protagonista di altri fatti criminali, altri sequestri. Tra tutti il sequestro di Giuseppe Soffiantini. Fu il suo custode, in sostanza. Per il sequestro Soffiantini è stato condannato a 30 anni di carcere. Nel frattempo viene processato per l’omicidio del poliziotto dei Nocs Samuele Donatoni, ma viene assolto in via definitiva nel 2017. E’ stato sospettato, ma mai incriminato, per il sequestro di Silvia Melis, avvenuto in Ogliastra nel 1997. C’è chi dice che sia morto. Ammazzato dal suo complice Giovanni Farina per non dividere la somma del riscatto per il sequestro Soffiantini. Ma gli inquirenti, nel 2012, hanno riaperto le ricerche. E continua ad essere uno degli introvabili. Uno dei più pericolosi latitanti italiani, ricercato anche all’estero.

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Giacomo Di Girolamo
Giacomo Di Girolamo, giornalista. Mi occupo di criminalità organizzata e corruzione in Sicilia da più di 20 anni. Sono direttore della radio più ascoltata della provincia di Trapani, Rmc 101, e di un portale molto letto in Sicilia, Tp24. Miei articoli sono usciti su Repubblica, Il Sole 24 Ore, Domani. Collaboro anche con Linkiesta.  Sono autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro: L’invisibile (un'edizione aggiornata è uscita nel 2023), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella), Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014), Contro l’antimafia (Il Saggiatore, 2016).  Per Laterza ho scritto "Gomito di Sicilia" (2018), per Zolfo "Matteo va alla guerra" (2022) e "Una vita tranquilla" (2004). Per le mie inchieste ho vinto nel 2014 il Premiolino, il più importante premio giornalistico italiano, e, nel 2022, sotto l'alto patronato della Presidenza della Repubblica, il Premio Nazionale "Paolo Borsellino". Ho raccontato la mia vita in un podcast per Audible, "L'isola di Matteo".