Nell’ultima ordinanza di Caltanisetta, a Messina Denaro è contestato il concorso morale, per aver aderito al piano stragista e alla sua attuazione, partecipando ad un «gruppo riservato» creato da Totò Riina e alla sue dirette dipendenze. Un gruppo di “riservati” disposto a tutto pur di uccidere i nemici giurati di Cosa nostra: in primis Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di cui, dopo l’assassinio del giudice, veniva temuta l’ascesa alla Procura nazionale antimafia.
Una “supercosa” composta da due gruppi di pretoriani di Riina che non doveva conoscere le mosse dell’altro. Di uno – oltre a Giuseppe Graviano, Fifetto Cannella, Lorenzo Tinnirello, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci – faceva parte proprio Messina Denaro. Fu questo gruppo – secondo la ricostruzione di investigatori e inquirenti coadiuvato ad un certo punto dal clan camorristico Nuvoletta – a partecipare alla missione romana (dal 24 febbraio al 5 marzo ’92, un mese dopo la sentenza nel maxiprocesso emessa il 30 gennaio) impegnata ad uccidere Falcone o, in subordine, l’allora ministro Claudio Martelli o personaggi invisi comeMaurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo. Una “super Cosa nostra” che era il sintomo dell’ansia parossistica con la quale Riina perseguiva l’eliminazione di Falcone, strettamente collegata alla strategia di guerra allo Stato.
La ”supercosa”, come raccontò il pentito Vincenzo Sinacori il 25 maggio 1997, doveva essere la risposta alla “super procura antimafia” e doveva servire per «chiudere, nel senso di chiudere i discorsi, saperli sempre meno persone…sì era un gruppo che dipendeva solo ed esclusivamente da Riina. Era una super Cosa dentro Cosa nostra». In un precedente interrogatorio del 14 febbraio 1997, aveva dichiarato che «la struttura prevedeva la costituzione di gruppo molto ristretti i cui componenti non avevano alcun obbligo di informare delle loro azioni i rispettivi rappresentanti e capi mandamento».