“Io, schiavo dei campi a Marsala. Ci dicevano ‘se parlate vi sparo in testa'”

“Io, schiavo dei campi a Marsala. Ci dicevano ‘se parlate vi sparo in testa'”

2020-04-19T19:54:43+02:00 6th Giugno, 2019|inchieste|

“Lavoravamo 12 ore al giorno per 30 euro. Niente cibo, né acqua. Ci sputavano in faccia e dicevano che dovevamo lavorare fino a pisciare sangue. Ci dicevano che se ci lamentavamo ci sparavano, perchè tanto di noi rumeni non interessa a nessuno”.

E’ un racconto d’altri tempi, da terzo mondo, da schiavi dei campi. E’ il racconto degli operai che hanno avuto il coraggio di denunciare i “padroni” che li sfruttavano nei terreni. Succede a Marsala, provincia di Trapani, non 70 anni fa, ma nei giorni nostri.

E’ un racconto incredibile quello che coinvolge la cooperativa “Colombaia”, al centro dell’inchiesta di guardia di finanza e Procura di Marsala (Pm Antonella Trainito) su lavoro nero e sfruttamento sfociata, il 14 maggio, in 4 provvedimenti cautelari di obbligo di dimora nel Comune di Marsala emessi dal gip Francesco Parrinello per tre marsalesi, Filippo e Giuseppe Angileri, di 79 e 49 anni, padre e figlio, e il cognato di quest’ultimo, Benedetto Maggio 41 anni, e un romeno, il 39enne Ion Lucian Ursu. Il reato contestato è “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”.

Viene fuori un contesto definito di schiavitù. Operai che non solo vengono pagati poco, senza alcun contratto, ma non hanno neanche le tutele sanitarie e di sicurezza sul lavoro. Quando stanno male devono lavorare, altrimenti niente paga. Se si fanno male sul posto di lavoro, sono guai, nessuno li tutela.

“La nostra giornata cominciava alle 5.30-6, ci venivano a prendere con un furgone ‘i capi’, i ‘padroni’ – così racconta uno degli operai che ha denunciato tutto. Venivamo stipati come sardine, ammassati, in 10, 11, in un furgone, e trasportati nelle campagne di Marsala, Mazara, Partanna, Castelvetrano, Salemi. Lavoravamo dalle 10 alle 12 ore al giorno. Avevamo al massimo mezz’ora di pausa. Il cibo? Dovevamo portarcelo da casa. Anche l’acqua, dovevamo provvedere noi a nostre spese”.
“Lavoravamo di inverno col freddo e la pioggia, e non ci consentivano di ripararci, lavoravamo d’estate sotto il sole cocente, ed era durissimo, arrivavamo a casa stanchi morti”.

E quando ci si ammalava dovevano andare a lavorare ugualmente. “Se restavo a casa non venivo pagato, e ho moglie e figli da mantenere”. La paga? Misera. Dai 30 ai 40 euro al giorno: 2.50 euro l’ora. “Ma sapevo che i capi percepivano dai terzi che gli commissionavano i lavori nei campi non meno di 60 euro al giorno e negli ultimi anni anche di più. Dei sei anni di lavoro sono stato messo in regola solo per circa 130 giorni”. Solo la domenica non si lavorava.

Raccontano di un infortunio capitato ad un operaio che per tirare un fil di ferro dal trattore per la potatura delle viti subì lo schiacciamento di tre dita. “Non lo portarono al pronto soccorso perchè non era in regola, gli diedero un antibiotico e venne licenziato. Ho saputo che riportò danni seri alla mano e che è tornato in Romania”.

Il duro lavoro nei terreni, col caldo e col freddo, nessuna tutela contrattuale, nessun diritto. E un trattamento disumano. “Ci sorvegliavano e ci imponevano ritmi di lavoro massacranti, in tante occasioni rimproveravano l’operaio che dopo ore e ore di lavoro si permetteva di accedere una sigaretta. Non potevamo fare pausa durante il lavoro neanche per andare in bagno. Ci umiliavamo perchè dovevamo fare i nostri bisogni davanti a tutti”.

Raccontano di umiliazioni e vessazioni da parte di Maggio e degli Angileri. “Ci definivano “teste di cazzo”, “rumeni di merda”, “imbranati”. Più volte Filippo Angileri diceva a me e ad altri “se tu vuoi guadagnare soldi devi lavorare fino a pisciare sangue””.
Una volta – racconta sempre uno degli operai impiegati nei terreni e che ha raccontato tutto – sputò in faccia ad un mio collega perchè non lavorava veloce”.
Dalle vessazioni alle minacce: “Una volta mi lamentai con Peppe Angileri, mentre mi stava riportando a casa a bordo del suo furgone bianco, allora aprì il cassetto del cruscotto e mi mostrò una pistola dicendomi “con me chi scherza o si lamenta passa guai””. In un’altra occasione Peppe Angileri disse – secondo il racconto degli operai – “se vi lamentate o fate casini vi sparo in testa, anche perchè voi siete stranieri, non siete di qui”.
Il senso era chiaro. Se succede qualcosa a loro non sarebbe importato a nessuno. E’ questa la nuova schiavitù. A Marsala, nel 2019.

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Giacomo Di Girolamo
Giacomo Di Girolamo, giornalista. Mi occupo di criminalità organizzata e corruzione in Sicilia da più di 20 anni. Sono direttore della radio più ascoltata della provincia di Trapani, Rmc 101, e di un portale molto letto in Sicilia, Tp24. Miei articoli sono usciti su Repubblica, Il Sole 24 Ore, Domani. Collaboro anche con Linkiesta.  Sono autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro: L’invisibile (un'edizione aggiornata è uscita nel 2023), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella), Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014), Contro l’antimafia (Il Saggiatore, 2016).  Per Laterza ho scritto "Gomito di Sicilia" (2018), per Zolfo "Matteo va alla guerra" (2022) e "Una vita tranquilla" (2004). Per le mie inchieste ho vinto nel 2014 il Premiolino, il più importante premio giornalistico italiano, e, nel 2022, sotto l'alto patronato della Presidenza della Repubblica, il Premio Nazionale "Paolo Borsellino". Ho raccontato la mia vita in un podcast per Audible, "L'isola di Matteo".