28 aprile 2022, Tp24 – il territorio in diretta
Esce oggi in tutte le librerie “Matteo va alla guerra”, nuova fatica del giornalista e scrittore (peraltro direttore di Tp24), Giacomo Di Girolamo. Lo pubblica Zolfo. Già in tanti ne parlano come di un caso editoriale, e quindi abbiamo fatto qualche domanda direttamente all’autore, in un’intervista a kilometro zero, anche per capire chi è il Matteo del titolo (abbiamo qualche sospetto …), e di quale guerra si parla …
Cos’è “Matteo va alla guerra”?
“Matteo va alla guerra” è il mio nuovo libro, lo pubblica Zolfo (una delle nuove realtà editoriali più interessanti degli ultimi anni) e racconta gli avvenimenti che portarono alle stragi di mafia del 1992 e del 1993. Mi sembrava, infatti che ci fossero alcune tessere mancanti, nella ricostruzione del mosaico di quegli anni. Molto si è parlato delle stragi, tanto, davvero, a volte cedendo il passo più alla retorica che al racconto, ma è rimasta, sempre, nell’ombra la parte “trapanese” della storia. Senza Cosa nostra trapanese, le stragi non sarebbero state realizzate, ecco. E questo racconto, ancora, mancava.
Perché è importante saperlo?
Perché solamente oggi si capisce che qui, in provincia di Trapani, Cosa nostra aveva la sua roccaforte. Lo stesso Riina parlava di questo territorio come la “roccia” di Cosa nostra. Qui, anche dopo il ‘92, e a lungo, i mafiosi gireranno indisturbati, impuniti. Come dicevano alcuni di loro, mentre da altre parti “i cani erano attaccati alla catena”, in provincia di Trapani i cani neanche c’erano.
Il Matteo nel titolo è sempre lui, Messina Denaro, vero?
Si. E credo di poter dire, adesso, di aver terminato con i miei libri, i documentari e i podcast su Messina Denaro. Tutto quello che sapevo e che so, l’ho messo sul tavolo. Il Matteo del titolo proprio è Messina Denaro, il boss di Castelvetrano latitante del 1993. Lui è uno dei fautori della stagione delle stragi, e per anni il suo ruolo è rimasto sconosciuto. Adesso, finalmente, facciamo luce. E possiamo dire non solo che Messina Denaro ha partecipato alle stragi, ma che si è servito delle stragi, e delle conseguenze che portarono dentro Cosa nostra, anche per fare fuori la vecchia guardia e assumere lui un ruolo di vertice.
Ma perché un libro sulle stragi e Messina Denaro? Non ce ne sono già tanti …?
Perché avevo un’urgenza. E l’urgenza era raccontare che Messina Denaro è stato protagonista assoluto di quella stagione, ed è invece sempre rimasto protetto, come tutta la mafia trapanese. Negli anni ‘80 Riina e Provenzano erano già tristemente famosi, lo stesso Filippo Graviano, amico e coetaneo di Matteo Messina Denaro, era già noto alle forze dell’ordine e aveva subito le prime condanne. I Messina Denaro, no. Incensurati, anzi, considerati persone più che rispettabili. La mafia trapanese ha vissuto sempre di impunità. Prima, e in parte anche dopo le stragi. Non è un caso che alla condanna di Messina Denaro, per le stragi del ‘92, si arriva solo, in primo grado, nel 2020, 25 anni dopo!
Ma c’era bisogno di un ennesimo libro sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio? In questo periodo ne esce in pratica uno a settimana …
Si, perché questo è un libro diverso, che non parla propriamente delle stragi, ma di tutti gli eventi criminali (e umani) che le hanno generate. Non si parla né di trattative, né dei noti depistaggi, ma si raccontano cose ben più gravi ed importanti. Il territorio della provincia di Trapani, purtroppo, la mia terra, emerge quasi come un grande corpo di reato rimasto volutamente ignorato per anni. Una regola fondamentale del giornalismo è che il “territorio parla”. Ed è vero. Il territorio parla, perché lì avvengono i fatti. Noi giornalisti spesso trascuriamo i fatti e lavoriamo per ipotesi, o cerchiamo di piegare i fatti alle nostre idee, o, peggio ancora, ci facciamo portavoci di qualche procura. Io invece penso che, in tempi di grande confusione, bisogna tornare a fare parlare i fatti, il territorio, le cose accadute. Scopriamo così, a proposito, di depistaggi, che ce ne sono ben altri, preparati prima delle stragi….
E’ una delle cose che troviamo in “Matteo va alla guerra”?
Si, insieme a tutti gli episodi che hanno portato alle stragi di Capaci e Via D’Amelio ed alla folle guerra della mafia contro lo Stato. Le riunioni, i preparativi, la missione romana di Messina Denaro per uccidere Falcone, i falliti attentati a Borsellino, la decisione di portare la guerra fuori dalla Sicilia, il ruolo del giovane Matteo, che aveva un incarico preciso che gli aveva dato Totò Riina.
Quale?
Sparare alle spalle di chi fuggiva, di chi aveva anche una minima esitazione sulla svolta stragista voluta dai Corleonesi. E poi Messina Denaro è confidente di Riina, addirittura farà parte della “super cosa”, l’organismo ristretto operativo, la cabina di regia della guerra. Di questo ruolo approfitterà per consumare anche le sue vendette, e per scalare, nel caos, i vertici di Cosa nostra. Mentre tutti vedevano nella guerra il caos, Matteo vedeva in quel terrore un’opportunità.
Sembra un noir.
Più che un noir è un romanzo non “criminale”, ma di più, nero. A volte romanzo d’azione, a volte farsa. Come la storia d’Italia, d’altronde.
C’è una scelta stilistica forte, in questo libro.
Si. Il racconto di quegli eventi è fatto in prima persona plurale, a parlare è un “noi”. E il “noi” sono proprio i mafiosi, i soldati dell’esercito di Matteo, che parteciparono alla guerra. E’ come se fosse una sorta di memoriale.
Una scelta rischiosa.
E’ dettata da due considerazioni. La prima, riguarda l’importanza, quando si scrive, di mettersi anche, diciamo, “dalla parte degli infedeli”. Cioè di utilizzare un punto di vista che sia a volte proprio l’opposto al nostro. In altre parole: cosa significa raccontare il male per chi era dalla parte del male? E’ un cambio di prospettiva importante, che ci permette di spiegare la storia (attenzione, spiegare, non giustificare…) con gli occhi dell’”altro”. Non nasce tutto per caso, per vezzo, c’è dietro anche una questione di fondo, per me ormai dirimente.
Quale?
In questi anni noi abbiamo costruito una certa narrazione sulla mafia e su Messina Denaro cercando di inseguire il fuggitivo, le sue tracce. D’altronde la mia rubrica radiofonica più famosa si chiama “Dove sei, Matteo?”. E ha per sottotitolo: “Un indizio al giorno alla ricerca di Matteo Messina Denaro”. Ecco, adesso ho cambiato prospettiva. Non mi interessa più “inseguire” il cattivo, ma “raccontare” il male. E cercare di farlo bene. Questo significa, per me, lavorare sulla qualità della scrittura. Perchè c’è una verità che dobbiamo dire sui libri a tema “mafia”.
Prego.
Sono noiosi. O meglio: la maggior parte di loro sono noiosi. Sono scritti male. C’è chi si sente portatore di una volontà assoluta, c’è chi, tra giornalisti e scrittori, mette la scrittura al servizio non di chi legge, ma del suo ego. C’è chi si fa portavoce di vendette trasversali tra investigatori e magistrati. Tutto questo svilisce la scrittura. Io invece ritengo che bisogna saper scrivere, scrivere bene, raccogliere sfide anche al di là di ogni immaginazione, ma è questo il vero senso della scrittura. Ecco, ci provo.
Perché c’è in copertina di “Matteo va alla guerra” il famoso Cretto di Burri?
Perché la grande opera d’arte voluta da Alberto Burri a Gibellina, l’enorme Cretto che copre il paese distrutto dal terremoto del 1968, è, come tutte le grandi opere d’arte, una metafora bella e terribile insieme. E oggi rappresenta molto il nostro disorientamento, il labirinto nel quale ci siamo persi, nella lotta alla mafia.
In che senso?
Il 1992 è l’anno nero della lotta alla mafia. Da lì, però, lo Stato comincia ad alzare la testa, e a fare davvero la guerra a Cosa nostra. Vengono rafforzate le procure antimafia, i reparti investigativi, nascono istituti come il carcere duro, viene potenziata la confisca dei beni, vengono arrestati tutti i grandi latitanti, l’unico a piede libero è Matteo Messina Denaro, se è vivo. Eppure non ci sentiamo di festeggiare, come mai?
Già, come mai?
Perché Matteo Messina Denaro è riuscito nell’impresa, diventando invisibile, di intrappolarci in un labirinto. Ha costruito un cretto per seppellire le macerie delle stragi. In questo labirinto, ci tiene prigionieri. Cerchiamo il nemico, non lo troviamo. Ci rifugiamo nella retorica delle commemorazioni ed in una cosa che io chiamo “la retorica dell’apocalisse”. E qull’atteggiamento, figlio della cultura del piagnisteo, che ci spinge a pensare che nella lotta alla mafia siamo sempre sull’orlo del baratro. Invece non è così: dal 1992 ad oggi abbiamo ottenuto grandi successi contro la mafia. E’ Messina Denaro che è all’angolo, non noi. Questa retorica dell’apocalisse, oltre a dipingere tutto il quadro come di grande emergenza, porta ognuno di noi alla paralisi, ci rende solo spettatori di prediche della star di turno dell’antimafia. E confondiamo il concetto di impegno civile con una gara a chi è il più “puro”. Ecco, la “purezza” non rende liberi dalla mafia. Lottare contro la retorica dell’apocalisse significa si, pensare alla mafia, con inquietudine, ma senza isteria, con serietà e lungimiranza, non piangendoci addosso, ma cercando soluzioni, e gli strumenti per attuarle.