In quell’estate del 1992 continuammo a vederci e a riunirci, forse anche con meno precauzioni rispetto a prima, perché avevamo fatto saltare in aria l’Italia e ci sentivamo potenti e intoccabili. La nostra natura predatoria aveva preso il sopravvento. Assistevamo ai funerali di Stato, ai cortei dei «Buffoni! Buffoni!», ai cuori vibranti di protesta. Vedevamo le strade invase da militari e carabinieri.
Peccato che all’epoca non ci fosse ancora internet perché avremmo fatto una diretta in streaming per urlare al mondo: siamo noi. E avremmo voluto continuare, e abbiamo continuato. Eravamo dentro una specie di incantesimo, una ruota che girava nella ruota, un inizio senza fine.
Alcuni proponevano di portare le bombe sul continente. Matteo e i Graviano cominciavano già a valutare questa opzione: tanto a Roma l’esplosivo lo avevamo lasciato, e poi non sarebbe stato un problema spostarlo qua e là. E in effetti verrà il turno dei luoghi d’arte e dei musei. Come se fossimo fatti di acido, avevamo delle visioni: ci ubriacavamo spesso, in quel periodo, cercavamo una magica regressione nel ventre protettore dell’ebbrezza, che ci ricordava quello della mamma.
Arrivavamo già ubriachi agli appuntamenti con le nostre ragazze per portarle in motoscafo a fare il bagno dietro l’isola di Favignana, consumavamo litri di vino bianco con la scusa di accompagnare due fili di busiate allo scoglio nei ristoranti vista mare di Mazara, passavamo i pomeriggi di caldo e polvere scandendo il tempo a suon di birre. Nel delirio ognuno la sparava grossa, su come dare un altro colpetto.
Qualcuno diceva: perché non avveleniamo le merendine dei distributori delle scuole? Qualcun altro voleva mettere le siringhe infette di Aids nascoste nella sabbia di Rimini. Qualcun altro voleva distruggere i templi di Selinunte. Oppure mettere una bomba nel centro di Trapani. Ma sarebbero morte tante persone innocenti, avevamo obiettato. E Riina: A Sarajevo muoiono tanti bambini innocenti, per ora. Che problema c’è?
Ci mancava solo che qualcuno diceva: togliamo i sassi alla Luna, a poco a poco, per farla crollare sull’Italia. Per fortuna che c’era Matteo a riportarci sulla Terra. Lui stava a Bagheria, oppure a Brancaccio. Lì un giorno i poliziotti fecero irruzione nell’appartamento dove era ospitato, convinti però di trovare Giuseppe Graviano. Per fortuna non c’era nessuno, ma a ogni modo a Graviano viene la prescia, appena la polizia se ne va, di svuotare l’appartamento, soprattutto perché c’era un mobiletto con tutte le foto e i documenti di Matteo.
Nella vostra memoria rimane il ricordo di quelle stragi: e Falcone & Borsellino, e Giovanni & Paolo sempre con noi, e i cortei, e le foto – una in particolare che sembrava fatta apposta per il necrologio combinato dei due – ma per noi era chiaro che la cosa non finiva lì. E quell’anno, come vi abbiamo spiegato, fu pieno di altri eventi importanti, che servirono eccome per gli scopi che ci eravamo prefissi, per il cambio generazionale, strategico, che Matteo stava portando avanti. Quindi parlare di quelle stragi senza coinvolgere il resto è come farci un torto.
Perché il mosaico è unico e, anche se avete in mano le tessere più grosse, è dai particolari che si apprezza la visione di insieme, no? E Matteo la visione di insieme l’aveva chiara. Noi con l’adrenalina in corpo a volte ragionavamo davvero come bestie, sembravamo cani da caccia incontenibili dopo aver azzannato le prime fagianelle, e avremmo voluto continuare, per quel senso di onnipotenza che ci dava l’intera operazione. Eravamo diventati, improvvisamente, un’arma mortale, distruttiva, potentissima, da gestire con cura, perché qualcuno si sarebbe potuto fare male.
E non bastava neanche l’esperienza, per gestirci, perché eravamo qualcosa di nuovo, un improvviso fuoco di sant’Antonio nella storia di Cosa nostra, ed è per questo che anche il signor Riina ne è stato travolto, perché è stato vittima dello stesso mostro che aveva creato, convinto di poter dominare il mondo a furia di colpi e colpetti, e invece poi il colpo lo ha preso lui, tradito dai suoi, preso, buttato in carcere, finito, stop. Matteo no.
Aveva pensieri nuovi e splendidi, Matteo, vedeva tutto con chiarezza, sembrava sempre sapere. Ed è per questo che cavalcò questo tsunami con posa plastica da surfista, portandoci tutti dentro il nuovo corso che lui stava creando per noi.
Serviva al cambio di passo, ad esempio, l’omicidio di Ignazio Salvo, uomo d’onore del nostro territorio, e come tale potente e segreto. Grazie a noi la sua fortuna era stata grassa e sfacciata, tanto che lo chiamavamo «Il barone del 10 per cento». Dalla montagna di gesso della sua Salemi aveva costruito con suo cugino Nino un impero. Era caduto in disgrazia, era inaffidabile, e ci siamo andati a casa, il 17 settembre di quell’anno 1992, con un commando di uomini d’onore di tutto rispetto.
Per noi Ignazio Salvo era il tramite per Lima. Ucciso Salvo Lima a marzo, Ignazio Salvo era da mesi un morto che camminava, e lo sapeva, e aveva pure delle guardie del corpo armate fino ai denti, ma erano persone di buon senso e avevano capito che se non volevano appizzarci oltre lo stipendio anche la vita, era meglio lasciarci fare. L’Italia era nella tempesta perfetta, perché tante cose stavano accadendo insieme, e se il destino è un regista, ha proprio talento.
Perché c’era la nostra guerra, c’era Tangentopoli, e c’era la più grave crisi economica mai vista, con la lira svalutata. In effetti era proprio come se la Luna stesse crollando sul nostro Paese. E in quel caos ne approfittammo ancora, perché il caos non è disordine, il caos è una scala. E il gradino successivo era proprio Ignazio Salvo, che fu ucciso a Bagheria, e siccome valeva sempre quanto avevamo deciso mesi prima, non ci fu bisogno di chiedere alcun permesso al capo mandamento della zona.
Per queste operazioni ognuno dava carta bianca nel proprio territorio: ciascuna delle famiglie, all’occorrenza, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi. Era non solo una regola, di più, era l’essenza di Cosa nostra. È come quando viene deliberato lo «stato di emergenza», e saltano tutte le regole e i protocolli, per essere più veloci e operativi.
Arrivammo dal mare, ancora una volta, come i pirati a Palermo «cu li facci d’inferno» e nel buio della notte. Lui era fuori casa, lo sapevamo. Sarebbe rientrato di lì a poco. Lo aspettammo nel giardino della sua villa. Gli svuotammo addosso i caricatori delle nostre pistole automatiche non appena scese dalla sua Mercedes bianca, con le mani ancora in tasca, tra il cancello di ferro battuto e gli scalini della veranda.