Regole chiare. Amicizia lunga. Se non si osservano possono nascere i dissidi, e la litigiosità delle famiglie mafiose in tempi di vuoti di potere è alta.
A Marsala la famiglia mafiosa ha delle regole ben precise per le estorsioni, anche se qualcuno fa di testa sua, ogni tanto.
Il meccanismo viene fuori dalla sentenza del processo con rito abbreviato “Visir”, l’operazione che ha mandato in carcere gli ultimi esponenti della famiglia mafiosa di Marsala.
Il meccanismo era questo. Le imprese di altre città non potevano fare lavori a Marsala. Se il Comune di Marsala appaltava un lavoro ad una ditta “straniera” questa aveva due strade se incontrava gli uomini della cosca marsalese. La prima, preferita dal clan, era subappaltare una parte del lavoro a ditte marsalesi controllate dalla famiglia mafiosa. Oppure regolare la “messa a posto”, una percentuale sul totale dell’appalto come contributo alla famiglia mafiosa di Marsala. In caso di subappalto del lavoro, l’azienda mafiosa avrebbe dovuto mettere a disposizione una somma di denaro all’organizzazione.
In questo caso era stato quantificato quanto doveva versare alla famiglia l’azienda mafiosa, o il gruppo di sodali, che otteneva in subappalto il lavoro. Se c’è da fare un piazzale, ad esempio, bisognava versare un euro a metro.
Lo spiega Vincenzo D’Aguanno ad un altro affiliato, Simone Licari, che doveva realizzare dei lavori per conto di un’impresa che aveva ottenuto l’appalto dal Comune.
“Allora, noi con Simone avevamo destinato che, quando lavoravo io là sopra, il piazzale che facciamo, lui ci deve dare 1 euro chi è che lo fa!… ad ogni metro! Ci sono 8 metri… 8.000 metri di piazzale… Sono 8.000 euro, questi vanno là!. Sono 5.000 euro, vanno là! 4.000 euro, vanno là!”.
Vanno là, alla famiglia mafiosa. Ragionava così la cosca di Marsala. Se tu azienda di un’altra città beccavi un lavoro a Marsala dovevi pagare la messa a posto, o meglio ancora dovevi dare del lavoro ad una azienda vicina alla famiglia di Marsala. Quest’ultima poi doveva versare un qualcosa ai vertici. Era decisamente meglio quest’ultima soluzione, ci guadagnava l’azienda, e ci guadagnava la famiglia. “Se abbiamo un po’ di cervello e siamo compatti hanno che venire loro sempre dietro e noi di fare sempre soldi e andare sempre avanti! Compare, questo è il discorso, basta! Io sono per il lavoro e per i soldi e per gli amici!”.
C’erano delle regole chiare da seguire. Regole che dovevano permettere al sodalizio di intascare dei soldi in occasioni di appalti e commesse.
Ad esempio, il vertice della famiglia mafiosa marsalese aveva stabilito che, in occasione di appalti in via di aggiudicazione, fosse indetta una discussione preliminare tra gli appartenenti della famiglia per suddividere l’assegnazione dei lavori da realizzare e ottenere quella che il giudice definisce “equa remunerazione di tutti gli associati”. Ma ci fu qualcuno che queste regole non le ha seguite. Erano nati ad esempio dei dissidi tra Vincenzo D’Aguanno e Simone Licari.
Quella che poteva sembrare una “sensalìa”, una intermediazione per l’acquisto di un bene era invece una estorsione. Lavora così la mafia a Marsala. Cerca di fare soldi, anche agevolando acquisti e vendite. Se un imprenditore doveva comprare un capannone, un immobile, un terreno, per la propria attività, doveva pagare la mafia. Un po’ per concludere l’affare, un po’ per essere “protetto”.
Licari si era fatto pagare da tale Michele Bua, proprietario di supermercati a Marsala, (non indagato), per la conclusione di un affare immobiliare. Il giudice scrive che “Bua era stato costretto da Licari ad erogare, a titolo di indebita mediazione, una consistente somma d denaro destinata in parte ai vertici della famiglia mafiosa di Marsala”. Questo affare fece arrabbiare D’Aguanno, che rimproverò a Licari il mancato rispetto del “protocollo mafioso”. Licari, in sostanza, non aveva coinvolto D’Aguanno nella spartizione dei proventi e aveva delegato alla riscossione dell’estorsione Domenico Centonze, ritenuto inadeguato.
Una mancanza di rispetto delle regole, e un inasprimento dei dissidi tra gli affiliati. Sembrava una “sensalìa”, l’attività di mediazione. Per il giudice invece quella era estorsione, quella era mafia.