I più grandi possidenti agricoli in Sicilia erano, trent’anni fa, gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Erano tempi di mafia, quelli. I piu grandi possidenti agricoli oggi, in Sicilia, sono i tribunali. Sono tempi di antimafia, questi.
E non sono comunque tempi facili. Perché al di là della retorica sui beni sequestrati, c’è una grande confusione oggi, sulla loro gestione.
Giudici costretti a fare da manager, agronomi che mettono su cooperative, commercialisti che diventano imprenditori, amministratori che fanno i signorotti. Più un popolo di partite iva, intermediari che diventano campieri, e sembra di essere all’origine della mafia, quando oggi, come un secolo fa, queste figure che sfruttano la manodopera e ingannano il padrone. Ieri lo facevano in nome della mafia, oggi lo fanno in nome dell’antimafia.
La vicenda che ha coinvolto Silvana Saguto, è indicativa di un andazzo che in molti avevano già tentato di denunciare. Inascoltati, perché tutto puoi criticare, ma mai un amministratore giudiziario o il dirigente di qualche associazione o cooperativa antimafia.
Il problema oggi è non solo cosa fare con tutti questi beni. Il vero problema è il “come” gestirli. Cioè: il modello. O, in altri termini: la partecipazione. Il coinvolgimento, cioè, nella gestione, non solo delle istituzioni e delle primedonne dell’antimafia, ma anche della comunità in cui il bene ricade.
Spesso certa ideologia antimafia equipara la proprietà mafiosa di un’azienda con chi ci lavora: se è mafioso il proprietario lo sono i suoi dipendenti. Mi è capitato di assistere al fallimento di aziende sequestrate gestite da amministratori più dediti a collezionare gettoni di presenza che fare profitti. I lavoratori vedevano, avrebbero voluto parlare, ma la risposta era: zitti. Magari, se queste persone, fossero state ascoltate, si sarebbe evitata la chiusura.
Bisognerebbe introdurre, nella gestione delle aziende sequestrate, la buona pratica dell’ascolto.