Il boss si trova nel Belice, nascosto in qualche casolare. E’ molto malato, ed è solo. Sono queste le ultime informazioni, che una fonte ritenuta attendibile ha dato agli investigatori su Matteo Messina Denaro, boss latitante dal 1993. Un boss invisibile, sul quale circolano dicerie e leggende. C’è chi lo vuole in Africa, chi in Sud America, chi addirittura dice è morto da tempo e che il suo nome viene utilizzato ormai come un “brand” per gli affari di Cosa nostra in provincia di Trapani. Ma adesso gli investigatori ritengono di essere di nuovo ad un passo dalla cattura del latitante. Si tratta, purtroppo, di un ritornello sentito più volte in questi ultimi anni, ma ora più che mai, dopo le condanne definitive per la sorella Patrizia, i sequestri milionari, gli arresti a parenti, amici, uomini fidati, davvero il boss – se è vivo – è solo. Il fatto che sia malato – dovrebbe soffrire di una grave forma di diabete, oltre che di problemi di vista – potrebbe portarlo presto ad un passo falso.
Purtroppo, però, chi gli dà la caccia, in questi anni, ha ottenuto, oltre a successi investigativi e piccoli passi avanti, anche qualche brutta figura, frutto soprattutto delle incomprensioni e della poca collaborazione tra magistrati, procure, forze dell’ordine e servizi segreti. L’ultima notizia di corridoio, ad esempio, dice che la squadra dell’ufficio intercettazioni della Procura di Palermo (occupa quasi un piano al Palazzo di Giustizia) è stata quasi totalmente smantellata e rifatta ex novo. Perchè? Per un errore madornale (se di errore si è trattato): il decreto top secret per la prosecuzione delle intercettazioni a carico di un sospettato (un uomo ritenuto cerniera tra mafia e ambienti della massoneria “deviata” della nostra provincia) è stato notificato al diretto interessato. Come è stato possibile? Insomma, senza fare grossi giri di parole: l’indagato – intercettato era un funzionario di polizia (questo sempre a dimostrazione di quanto forte sia il sospetto delle coperture istituzionali di cui gode Matteo Messina Denaro), e non doveva sapere di essere “ascoltato” da colleghi di un altro ufficio. Peccato però che sia stato messo in copia conoscenza del decreto con l’elenco di tutte le utenze telefoniche (e sono come sempre tantissime sotto controllo). La vicenda, è normale, ha creato un vero e proprio scompiglio, e per un po’ di tempo gli animi sono stati molto surriscaldati.
L’ Ufficio della Procura di Palermo specializzato nelle intercettazioni telefoniche, ambientali, video, audio e telematiche ultimamente non se la passa bene. A Giugno è scoppiato il caso di Dino Galati. Ex dirigente dell’ufficio, è in pensione dal 2013 ma è indagato con l’ipotesi di corruzione per un presunto scambio di favori nell’ufficio che dirigeva a vantaggio di alcune ditte private. Secondo i dati relativi al periodo cui si riferisce l’ inchiesta sui presunti favori (2011-2012), le spese sostenute per le intercettazioni effettuate lievitarono da 28 a 36 milioni e mezzo. La cifra esorbitante dipese non solo da un numero maggiore di intercettazioni, ma soprattutto dai costi, sempre più alti, per il noleggio delle attrezzature dai privati.
In pratica Galati avrebbe avuto un rapporto privilegiato con una ditta che si occupa di intercettazioni e che fornisce per questo alla Procura strutture, server, tecnologie e dispositivi: in cambio dell’ assunzione di un familiare, il dirigente avrebbe garantito un trattamento di riguardo, sia per i tempi di liquidazione delle fatture che per l’assegnazione degli incarichi.
L’ indagine è coordinata dal procuratore aggiunto Bernardo Petralia e dal pm Claudia Ferrari.
Ma, nel silenzio, anche il gruppo di lavoro che dava la caccia al superlatitante è stato azzerato. Come mai? Si tratta di un gruppo costituito dal Servizio Centrale Operativo, la Squadra Mobile di Trapani, il Commissarito di Pubblica Sicurezza di Castelvetrano. Aveva la sua base operativa nel nuovo commissariato di Castelvetrano. Era, per capire, il gruppo grazie al quale si sono condotte operazioni importanti come Ermes.
La caccia va avanti, dunque. Il governo Renzi ha confermato l’impegno anche dell’ Aisi, l’agenzia dei servizi segreti, per provare a chiudere questo capitolo della lotta a Cosa nostra. Dal dicembre 2014 c’è un protocollo d’intesa fra polizia e carabinieri, progettato dall’allora direttore dello Sco Raffaele Grassi e dal capo del Ros, il generale Mario Parente, attuale direttore dell’Aisi.Messina Denaro, lo ricordiamo, è stato condannato a sei ergastoli, ed anche per le stragi di Roma, Milano e Firenze. Presto comincerà il processo che lo vede imputato come mandante della strage di Capaci. Il “pupillo” di Totò Riina, è ritenuto il custode dei segreti di Cosa nostra.