Siamo in clima da votazioni per la Targa Tenco 2016 (e di cose belle quest’anno ne abbiamo ascoltate parecchie nella musica d’autore italiana…), eppure bisogna sempre guardarsi indietro, andare a lezioni dai grandi. Ed è per questo che con piacere ho letto un articolo sul Foglio di oggi, 3 Settembre, che rende omaggio ad una delle più belle canzoni in assoluto della musica italiana, “Giovanni Telegrafista”, di Enzo Jannacci. Canzone inarrivabile, raccontata così da Guido Vitiello:
Apparsa, nel 1967, sul lato in ombra del 45 giri di “Vengo anch’io. No, tu no”, eclissata da un disco solare più solare, “Giovanni, telegrafista” sta alla canzone italiana del Novecento come “L’anguilla” di Montale sta alla lirica. (…) “Giovanni, telegrafista” era in effetti una poesia: “João, o telegrafista”, scritta alla fine degli anni Quaranta da Cassiano Ricardo, che Jannacci pescò da un’antologia di poeti brasiliani curata da Ruggero Jacobbi e musicò. Solo che dopo Jannacci è impossibile leggerla come poesia (…) . Perché a quei versi sul telegrafista eremitico nella sua stazione povera con più alberi e uccelli che persone, l’uomo più solo al mondo che batte su un tasto solo sperando di ritrovare l’amata Alba fuggita all’alba verso le luci della grande città, Jannacci seppe aggiungere la sua voce e la sua mimica da extraterrestre caduto chissà come su questo pianeta; e perché i due caratteri dell’era telegrafica – l’ellissi, l’urgenza – che il modernista Ricardo aveva saputo trasformare per virtù di stile nel singhiozzo di un uomo a cui venga a mancare il respiro, frastornato dalle informazioni guizzanti da ogni capo del mondo, perfettamente isolato tra reticoli di impulsi elettrici, la canzone li faceva girare, come rondini intorno a un palo telegrafico, sul perno di un motivo assillante, quel píri-pirí-pirí-pirí-ppíppi da “Samba su una nota sola” di Jobim, che trasformava il codice morse nell’equivalente sonoro dell’idée fixe, della monomania amorosa. La grande stagione poetica del telegrafo era stata almeno mezzo secolo prima, sia della poesia di Ricardo sia della canzone di Jannacci, al tempo in cui le avanguardie più euforiche orchestravano su pagina la simultaneità, l’abbattimento delle distanze, la trasformazione del pianeta in un grande cervello pulsante. Che era però già un cerveau pourri, un cervello putrido, come aveva scritto Laforgue. Perciò “Giovanni, telegrafista” era uno strano esemplare di modernismo di modernariato.
E qui c’è il testo della poesia originale, di Cassiano Riccardo, del 1957
João telegrafista.
Nunca mais que isso,
estaçãozinha pobre
havia mais árvores pássaros
que pessoas.
Só tinha coração urgente.
Embora sem nenhuma
promoção.
A bater a bater sua única
tecla.
Elíptico, como todo
telegrafista.
Cortando flores preposições
para encurtar palavras,
para ser breve na necessidade.
Conheceu Dalva uma Dalva
não alva sequer matutina
mas jambo, morena.
Que um dia fugiu — único
dia em que foi matutina —
para ir morar cidade grande
cheia luzes jóias.
História viva, urgente.
Ah, inutilidade alfabeto Morse
nas mãos João telegrafista
procurar procurar Dalva
todo mundo servido telégrafo.
Ah, quando envelhece,
como é dolorosa urgência!
João telegrafista
nunca mais que isso, urgente.
II
Por suas mãos passou mundo,
mundo que o fez urgente,
elíptico, apressado, cifrado.
Passou preço do café.
Passou amor Eduardo
VIII, hoje duque Windsor.
Passou calma ingleses sob
chuva de fogo. Passou
sensação primeira bomba
voadora.
Passaram gafanhotos chineses,
flores catástrofes.
Mas, entre todas as coisas,
passou notícia casamento Dalva
com outro.
João telegrafista
o de coração urgente
não disse palavra, apenas
três andorinhas pretas
(sem a mais mínima intenção simbólica)
pousaram sobre
seu soluço telegráfico.
Um soluço sem endereço — Dalva —
e urgente.