Se l’ultima trincea della lotta alla mafia è la libertà di insulto

Se l’ultima trincea della lotta alla mafia è la libertà di insulto

2020-01-24T17:04:01+01:00 24th Gennaio, 2020|Contro l'antimafia|

Che tempi, quei tempi.
Eravamo all’università, il mondo scorreva lento, e ci potevamo permettere il lusso, noi studenti di Giurisprudenza appassionati di Diritto Penale e di sistemi criminali, di crogiolarci su quella domanda, e che domanda: la mafia è un ordinamento giuridico?

Oggi, se potessi proporre un tema, agli studenti di diritto penale, sarebbe il seguente: l’antimafia è un ordinamento giuridico? Sembra, infatti, di assistere, quando si parla di antimafia e dei personaggi che in quel contesto si muovono, di avere a che fare con un mondo a parte, un universo parallelo, con sue regole (una “normazione” direbbero i cultori del diritto), una sua propria organizzazione.
Gli amministratori giudiziari che impunemente fanno scanno dei beni sequestrati, i giornalisti costantemente minacciati che fanno carriera senza mai aver scritto magari un’inchiesta una, gli indagati già condannati alla sola notizia criminissolo per citare alcuni esempi. 
Un mondo distopico, parallelo. Un altro Paese. 
Gli stessi che fanno i girotondi per la Costituzione più bella del mondo, e  che applaudono Don Luigi Ciotti quando dice che “la Costituzione è il primo testo antimafia”, si dimenticano che nel nostro ordinamento la pena è rieducativa – è scritto nella Carta, piaccia o non piaccia – e quindi il processo deve essere giusto, anche per i mafiosi, e la pena deve essere giusta, anche per i mafiosi, e non è prevista la pena di morte per il reato di associazione mafiosa, anche se in tanti lo vorrebbero.
E che, insomma, se scrivi pubblicamente che un tale, anche se è uno spregevole mafioso è “un pezzo di merda”, potresti magari essere condannato da un tribunale. 

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La vicenda l’abbiamo raccontata più volte. Un giornalista trapanese, Rino Giacalone, è stato condannato, al termine di un travagliato processo, dalla Corte di Appello di Palermo, per aver dato del “pezzo di merda” al boss Mariano Agate, in un articolo scritto per il portale di Libera, l’associazione antimafia di Don Ciotti. L’articolo è uscito in occasione della morte di Agate. E Giacalone ha scritto: “Se n’è andato un pezzo di merda”.

Nobblese oblige. La vedova del de cuius si è sentita offesa, e ha sporto querela per diffamazione. Dopo una prima assoluzione, la Corte di Cassazione ha annullato il verdetto (e perchè nessuno ha scritto in quel frangente, allora, “La Cassazione è una montagna di merda?”. Ci stava …) e in Corte d’Appello poi è arrivata la condanna. 

Apriti cielo.

Io penso che le sentenze non solo vadano commentate, vanno anche contestate, quando non piacciono. Mi fa specie però notare come, anche questa volta, tutto venga letto sul piano emotivo, venga ideologizzato al massimo, venga quasi distorto, ad uso e consumo della platea del popolo antimafia.

Il diritto si evolve, è una cosa viva. Il reato di mafia non esisteva fino al 1982, questo è un aspetto che pochi considerano. Quando l’Italia ha vinto il Mundial, in Spagna, ecco, il reato di mafia non c’era. Ancora oggi ci interroghiamo se il carcere duro sia o no una forma di tortura, o se un’organizzazione criminale possa essere chiamata “mafia” anche se è a Roma. Quindi ci sta che la Corte di Cassazione ci spieghi che dare del pezzo di merda ad un mafioso non si può. E non si può, non perché il mafioso non lo sia, un pezzo di merda, ma perché ad un giornalista è forse richiesto altro, non insultare, ma raccontare, anche criticamente, aspramente, provocatoriamente. Ma l’insulto, ad un morto, lede la dignità dell’uomo, anche se quell’uomo è un mafioso. 

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Che tristezza che mi fa leggere certi commenti usciti dopo la sentenza: “Vietato dare del pezzo di merda ad un mafioso”. E giù cori di indignazione. Non è proprio così, il senso di tutta la vicenda è un altro, è più profondo, è complesso, e ancora una volta preferiamo lo slogan  e gli stereotipi: il giornalista che non è libero, in terra di Sicilia, di scrivere quello che vuole, povero Cristo. Ma quando mai, è libero, liberissimo, solo che c’è un principio, che è quello della “continenza”, che va rispettato. 

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Non volevo scrivere di questa vicenda, serve solo ad attirarsi antipatie e nemici: mai gridare il re è nudo dalle parti dell’antimafia, io l’ho fatto troppe volte. Ne pago il prezzo in isolamento, discredito, saluti mancati, spalle voltate. 
Però ci sono alcune piccole imposture che non sopporto, una su tutte quella di citare Peppino Impastato. “La mafia è una montagna di merda” gridava Impastato. Da qui il sillogismo da quattro soldi: se la mafia è una montagna di merda, allora un mafioso è un pezzo di merda. La forchetta ha tre denti, mia nonna ha tre denti, mia nonna allora è una forchetta, diceva scherzando la mia professoressa di storia e filosofia, parlando proprio di sillogismi. 

Sempre quella professoressa, della quale non ricordo il nome, mannaggia, ma era brava, parlando del nazismo ci chiese una volta: “Ragazzi, chi era Hitler?”. E noi: “Un pazzo”. E lei: “Questa è la risposta peggiore. Non possiamo liquidare il nazismo, la Seconda Guerra Mondiale, l’Olocausto, dicendo solamente che Hitler era un pazzo. Dobbiamo studiare, capire, comprendere”. E’ il nostro dovere. 

Cercava di studiare, capire, comprendere Peppino Impastato. E quando diceva “la mafia è una montagna di merda” per lui era un punto di arrivo di studio e ragionamento, di battaglie e di vita, non era una cosa buttata lì. Era un manifesto intellettuale, che per me ha lo stesso valore del “Ce n’est qu’un début…” del Maggio francese. Aveva un coraggio da tre leoni, Impastato, a dire quella cosa, perchè la mafia non esisteva per il codice penale, perchè era figlio di un mafioso, e aveva il capomafia come vicino di casa. Oggi, se io usassi il microfono della mia radio per dire “Matteo Messina Denaro pezzo di merda!” sarei solo un ciarlatano in cerca di visibilità. 

Quando spiego ai giovani come si scrive, come si racconta, li invito sempre a confrontarsi con queste domande: che senso ha quello che scrivo? che contenuto nuovo porto rispetto a quello che già si sa? che tipo di narrazione, che stile? Non gli dico: prendete un mafioso che vi piace, scrivete che è un pezzo di merda, ecco, siete giornalisti. 

Si, è  un’impostura farsi schermo con Peppino Impastato, perché ci fa capire che è morto invano, se del suo strazio e di quello di Rostagno e tutti gli altri rimane solo lo slogan da usare alla bisogna, credendo che l’utliizzo dell’espressione valga più del contenuto. Tanto scrivere, tanto manifestare, tanto studiare, per arrivare a questo? E’ questa la libertà che ci siamo conquistati? Poter dare del pezzo di merda al mafioso e volerla fare franca?  Cioè, mi state dicendo che, nel 2020, non ci indigniamo per una deputata eletta con il trucco (Piera Aiello), per un’associazione antiracket che fa ridere l’Italia (quella di Marsala), per le condizioni di sottosviluppo della nostra terra (una storia su tutte, quella dell’area industriale di Trapani), ma siamo indignati perché un giudice sostiene che tutto sommato non siamo liberi di insultare il mafioso? E’ per questo che abbiamo lottato? Per arrivare a questo punto. 

Scusaci, Peppino. E’ stato tutto vano. 

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E poi c’è un altro fatto che mi spinge a scrivere, perché Giacalone ha reso pubbliche le sue dichiarazioni spontanee, cioè quello che lui ha detto in aula, prima che il giudice si ritirasse per emettere la sentenza. Le ho lette con curiosità, per capire, pare l’affare Dreyfus, sta storia qua. Mi aspettavo un gesto coraggioso: “Vostro Onore, ribadisco che per il signor Agate è un pezzo di merda!”. Brusio tra i banchi, clamore, l’imputato, fiero, in controluce, imbocca l’uscita dell’aula, musica incalzante, titoli di coda. E invece Giacalone ha giocato al ribasso, quasi a chiedere scusa “non volevo offendere”. Per l’esattezza, dice: “Ci tengo  a precisare che non vi era da parte mia alcuna brama o velleità di offendere la reputazione pubblica e personale del boss mafioso Mariano Agate!”. 

Proprio così. “Lei è un pezzo di merda, ma senza brama di offenderla!”

Sembra un po’ quella battuta di Totò: “Lei è ignorante, nel senso che ignora”. “E lei è imbecille, nel senso che imbelle”. 

Giacomo Di Girolamo

P.S. In fondo è una necessità. Abbiamo bisogno ancora di quella mafia, la mafia di Riina, di Agate, di Messina Denaro. Ne abbiamo bisogno, perché loro giustificano la cultura emergenziale di questi anni, il nostro intendere, il fare, il pensare, il legiferare di questi anni come qualcosa di talmente urgente ed indefferibile da essere sopra le leggi e il buon senso, e sopra l’etica e sopra le righe. E anche da morti, ci servono, perchè sono fantasmi che fanno paura, che dobbiamo evocare, se no un giorno ci svegliamo, scopriamo che Cosa nostra è alle strette, e che cosa ci dobbiamo inventare? Ecco perchè, più che “pezzo di merda”, dovremmo fare come la cantante siciliana Levante, e dedicare ai mafiosi, al nostro mafioso che vogliamo insultare, ma che ci è caro, profondamente caro, perchè noi esistiamo in quanto c’è lui, vivo e morto (e d’altronde siamo antimafia, proprio perchè c’è la mafia, senza la mafia cosa anti saremmo?), dedicare, dicevo, quella canzone, che gioca amabilmente sul doppio senso, e dice: “Tu, sei un pezzo di me…un pezzo di mee… un pezzo di meeee…”. 

About the Author:

Giacomo Di Girolamo
Giacomo Di Girolamo, giornalista. Mi occupo di criminalità organizzata e corruzione in Sicilia da più di 20 anni. Sono direttore della radio più ascoltata della provincia di Trapani, Rmc 101, e di un portale molto letto in Sicilia, Tp24. Miei articoli sono usciti su Repubblica, Il Sole 24 Ore, Domani. Collaboro anche con Linkiesta.  Sono autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro: L’invisibile (un'edizione aggiornata è uscita nel 2023), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella), Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014), Contro l’antimafia (Il Saggiatore, 2016).  Per Laterza ho scritto "Gomito di Sicilia" (2018), per Zolfo "Matteo va alla guerra" (2022) e "Una vita tranquilla" (2004). Per le mie inchieste ho vinto nel 2014 il Premiolino, il più importante premio giornalistico italiano, e, nel 2022, sotto l'alto patronato della Presidenza della Repubblica, il Premio Nazionale "Paolo Borsellino". Ho raccontato la mia vita in un podcast per Audible, "L'isola di Matteo".