Eravamo noi. Superbi, formidabili e feroci. Stavamo creando un nuovo mondo, noi che eravamo considerati da un certo tipo di mondo come dei rifiuti, e invece volevamo imporre leggi nuove, invertire onore e disonore, dimostrare la nostra potenza, avere mandamenti sconfinati: dove finisce la tua zona? Lì dove finisce la città? No, più avanti, più avanti ancora.
Dove ti sembra che finisca, il nostro mandamento ricomincia migliaia di volte, ogni cantiere è nostro, ogni strada sterrata, ogni trazzera, ogni grattacielo l’abbiamo costruito noi, ogni porto è quello dove partono le nostre navi di droga e sigarette, anche l’orizzonte è nostro, che ti pare? Saremmo tornati ai tempi antichi, di quel Pitrè, il letterato, che aveva capito che la mafia è «sentimento di bellezza», come diceva, e noi ci sentivamo davvero belli e fieri, nelle nebbie in cui ci saremmo avvolti, nello stato che avrebbe perso ancora una volta la sua messa a fuoco, nel riconoscerci, nell’indicarci, nel lottarci.
Fu con questo spirito che portammo la guerra fuori dalla Sicilia, raggiunta la mediazione che metteva d’accordo tutti: bisognava continuare, ma non da noi, intaccando qualcosa di immateriale e prezioso, l’immagine dell’Italia. Ecco allora le bislacche ipotesi, noi seduti a un tavolo, con le guide del Touring in mano, come se avessimo dovuto organizzare un addio al celibato, ma per gente allitrata, colta, e senza puttan tour.
A Pisa c’è la torre, a Roma il Colosseo, a Torino la Mole, a Firenze gli Uffizi, a Milano musei e gallerie e la nebbia. Matteo poi ci disse che eravamo pronti, era tutto deciso. Con fare scenico, come ogni tanto amava fare, ricordandosi di essere siciliano, e quindi un po’ tragediatore anche lui, prese un manuale di storia dell’arte di un nipote liceale, lo aprì alla pagina dedicata agli Uffizi.
Noi vedevamo corridoi lunghissimi, stucchi dorati, quadri importanti, giovinetti in marmo. E il suo indice, come a dire: qui. Matteo ci raccontò anche che si era fieramente opposto all’idea che balenava a qualcuno di fare gli attentati in Sicilia, per comodità di logistica ed economia di pezzi. E la cosa camminava, tanto che era venuta anche la proposta di fare saltare in aria un tempio al parco archeologico di Selinunte. Oh, ma siete impazziti? aveva urlato Matteo, che non perdeva quasi mai la calma.
A casa mia? Volete mettere le bombe a casa mia? I palermitani lo avevano toccato in un punto sbagliato. E siccome ormai eravamo sul punto del crollo nervoso, perché tutti sospettavamo di tutti, Matteo capì che in quell’assurda richiesta c’era una trappola: vi siete fatti i bagni a furia di scavare indisturbati come tombaroli e vendendo tutti i reperti archeologici che trovavate in modo indisturbato, e adesso dovete dimostrare che a qualcosa sapete rinunciare anche voi.
La risposta è no? O ci aiutate a mettere le bombe, allora, o le bombe le mettiamo direttamente nel culo a casa vostra, tra i templi e gli altari sacri.
Il resto, lo sapete. Via dei Georgofili, Firenze, 27 maggio 1993. Cinque persone morte. Ma colpimmo anche la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, musei, ponti, opere d’arte, e tutti gli edifici intorno, come se avesse agito una mitragliatrice. Via Palestro, Milano, 27 luglio 1993, il Padiglione di Arte Contemporanea. Cinque vittime.
Nella stessa notte colpimmo la Basilica di San Giovanni in Laterano, Roma, con tanti danni ai monumenti. Tre latrati che hanno squarciato l’Italia. E il capo del governo che per un attimo ha avuto paura e pensato al colpo di Stato. Il 14 maggio avremmo dovuto finalmente fare Maurizio Costanzo, in Via Fauro, nell’elegante quartiere Parioli, a Roma. Una Fiat Uno imbottita con 80 chili di tritolo. Ma non ci riuscimmo. Ma ve lo immaginate che se tutto fosse andato bene oggi avreste venerato Costanzo come un «giornalista vittima della mafia», con la vedova che anziché fare Amici in tv avrebbe fatto magari Amici degli amici nelle aule di tribunale, nei convegni antimafia, nelle scuole? Per sua fortuna, quella sera la sua auto ebbe un guasto, e allora aveva noleggiato un’altra macchina. E noi non lo capimmo, all’inizio, che era lui.
Così azionammo il telecomando troppo tardi. Uno, due secondi decisivi. Nel gennaio dell’anno 1994 altro intoppo, davanti allo Stadio Olimpico, dopo una partita di campionato, in Via dei Gladiatori, dove abitualmente parcheggiavano i pullman che portavano i carabinieri impegnati nel servizio d’ordine. Si giocava Roma-Udinese. Potevamo cominciare l’anno con il botto, davvero, cambiare per sempre le sorti della guerra, colpire l’Italia nel suo ventre più caldo, quello del tifo. Non funzionò il congegno. Eppure eravamo diventati così bravi. Era tutto pronto. Spatuzza e Scarano avevano fatto i sopralluoghi mesi prima.
Pentrite T4, tritolo, nitroglicerina, insieme a dei tondini di ferro, per amplificare ancora di più l’effetto dell’esplosione. Avevamo studiato i particolari, quasi sapevamo quanti carabinieri sarebbero morti, e anche come avremmo rivendicato quel 23 gennaio, un’altra domenica delle salme.
Ma niente, il meccanismo si inceppò. Pochi giorni dopo, i fratelli Graviano vennero presi, a Milano, mentre mangiavano al ristorante. Si chiamava «Il cacciatore», che ironia. Erano clienti fissi, i camerieri se li ricordavano sia per le laute mance, sia per un particolare: ogni volta, prima di sedersi a tavola e ordinare il pranzo, recitavano in piedi le preghiere. E noi con le bombe la chiudemmo lì. Matteo ci disse: non sono più necessarie.