Ieri un cronista di Repubblica è stato preso a manganellate dalla polizia a Genova.
Faccio mie le parole di Carlo Bonini, oggi, proprio su Repubblica.
Sono tempi duri per chi fa informazione, e io purtroppo, che guido da quest gomito di Sicilia una pattuglia di coraggiosi giornalisti che cercano di fare semplicemente bene il mestiere che amano fare, lo so bene: non si contano più le minacce, le querele temerarie, le richieste di risarcimento danni continue, ma anche gli insulti sui social per ogni cosa che scriviamo, con una violenza verbale che non si era mai vista.
Un Paese che comincia a pensare che i giornalisti ma, meglio sarebbe
dire, il giornalismo non è un bene di tutti, che la faccenda è materia
di una corporazione inutile e spazzata via dal tempo, che, anzi, è venuto il tempo di togliersi i guanti e lasciare che qualche rompicoglioni abbia ciò che merita — in un vicolo, in una piazza, in rete — con una robusta dose di minacce (se necessarie, di morte) o di legnate, è un Paese che ha cominciato a perdere se stesso. Che comincia a danzare pericolosamente su un abisso dove la logica del “redde rationem” deve progressivamente consegnare ogni presidio di libertà e chi la garantisce a una spaventosa conta. O
con me o contro di me. Dove ogni mediazione salta. Dove l’informazione non ha più diritto di cittadinanza perché ormai etichettata come
«serva» o «bugiarda». Dove a ogni poliziotto viene imposto di decidere
in solitudine se essere moschettiere del Re o cittadino. E dove
i militanti dell’ultradestra ballano, proteggendosi con l’articolo 21
della Costituzione, la libertà di espressione.
Il pomeriggio di Genova è un modesto avviso. Per tutti. E che un
giorno, speriamo non arrivi mai, nessuno dica di non essersene accorto.