Rimanere a distanza. Lavarsi le mani.
Non lo dimenticherò più il cielo, il cielo nostro, del giorno uno dell’anno zero d.C. (durante Coronavirus). Era di un azzurro bellissimo anche per me, poco incline alla contemplazione. E il mare, quel mare, era una tavola di pace.
La natura se ne frega, pensavo. Dei nostri disastri, come delle malattie. Di chi campa, di chi muore. Di chi ha paura. La natura se ne frega. Di noi, che rimaniamo a distanza. E ci laviamo le mani.
Eppure questa cosa piccola e terribile, questo virus che i bimbi a scuola disegnano come una regina cattiva, ce lo siamo costruiti noi, pezzo per pezzo, quasi fosse una cattedrale.
Perché, nella paura che abbiamo della malattia, in questo inferno che sono diventate le nostre vite, (perché è un inferno avere i bambini a casa, è un inferno non potere uscire la sera, è un inferno saltare la festa, e la palestra e la piscina e l’apericena, è un inferno dover ascoltare un consiglio / rispettare un divieto ed è un inferno tutto ciò che non rientra nella nostra programmatissima, organizzatissima, dettagliatissima vita) ci tocca subire, come insegna Dante, la regola del contrappasso.
E noi stiamo subendo quello che abbiamo costruito negli anni, nel tempo.
Quanta distanza abbiamo messo tra noi e gli altri?
Di quante cose ci siamo lavate le mani?
Quanto veleno abbiamo sparso?
Ed eccola, la pena.
Ce lo siamo costruiti noi, questo virus. Ogni volta che abbiamo voltato le spalle al mondo, agli annegati in mare, come alla nostra città. Ogni volta che abbiamo visto l’altro come nemico. E’ questa la cifra della nostra società, la insegniamo anche ai bambini, ormai: avere un vantaggio rispetto agli altri, un altrove, mettere distanza, cercare sempre un capro espiatorio per evitare responsabilità che sono nostre. Ce lo siamo cercati, questo veleno che è nell’aria, per tutte le volte che di quest’aria e di questo cielo, di questa terra e di questo pianeta abbiamo fatto scempio.
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In tanti hanno soluzioni facili su ciò che ci aspetta. Io penso invece che la verità è, come sempre, complessa. Non è la fine del mondo, è la fine di “un” mondo. Non moriremo tutti, ma il nostro mondo, appunto, non sarà più quello di prima. Non si risolverà tutto in pochi giorni, chiudendo i bar e le scuole, blindando l’Italia, ma prima o poi arriverà un vaccino o una scoperta, un’altra forma di penicillina, tra uno sputo e una spinta. O il virus stesso si stancherà di noi, farà un’ultima capriola, oplà, e scomparirà, come è venuto nel nulla buio dei nostri peggiori incubi. E non per il caldo, né per l’aria di mare, solo perché la natura se ne frega, anche di lui.
Molti moriranno – accade già – non moltissimi.
Sopravviveremo in tantissimi. Ma non saremo più quelli di prima.
A pagare il prezzo più alto saranno,come sempre i più poveri. Perché non esistono virus che colpiscono solo i commercialisti o i notai, o che passano la povera gente. Anzi. Il dolore bussa più forte alle porte che già conosce, come ci ricordano Camus, Manzoni e tutti gli altri autori letti e dimenticati (e come ci ricorda la prima autrice, la storia, la più rinnegata…).
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Nel frattempo, in questo terremoto freddo che stiamo vivendo, impariamo a conoscerci, e a riconoscerci. Nell’emergenza, viene fuori lo spirito autentico di ognuno. Scopriamo quanto stupida è l’umanità che ci circonda: chi inventa notizie false, chi annuncia l’apocalisse, chi in maniera irresponsabile fa come se niente fosse. Cento locali chiusi, basta uno che apre, per una manciata di euro in più di consumazioni, e il danno è fatto. E viene da pensare che non ci estingueremo per un virus, un giorno, ma per cretineria. E se ci fosse un virus che uccide solamente i cretini farebbe una strage.
Ad ognuno fa ribrezzo il fatto che qualcuno dal nord Italia, in queste ore, raggiunga la Sicilia portando malinconici desideri di cuscus e piatti di casa, e un considerevole rischio contagio. Vogliamo quarantene, eserciti, porti chiusi, camionette dei carabinieri negli aeroporti. Poi però pensiamo che nostro figlio / nipote / padre abbia un diritto che altri non hanno, a ricongiungersi. Perchè è sano, perchè è una cosa da nulla, perchè mica può capitare a lui. Il malato, il contagioso, è sempre l’altro.
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Mi trovavo a scrivere di questa cura che stanno sperimentando, per i casi più gravi, utilizzando un farmaco per l’artrosi. Solo che, sbagliando, ho scritto “altrosi”. E mi sono fermato un attimo. Perché in effetti è l’”altrosi” che andrebbe curata, innanzitutto, la tendenza a vedere l’altro come minaccia.
Questa è un sfida che si vince stando insieme, stando insieme tutti.
Ma è il TUTTI il concetto che abbiamo perso, il NOI, il più meraviglioso e misterioso dei pronomi.
La cura, siamo NOI.G
P.S. Sono, per noi di Tp24 ed Rmc 101, giorni stressanti e pesantissimi. La nostra piccola squadra si trova come sempre in prima linea per raccontare tempestivamente e in maniera approfondita quello che accade. Alla tensione che questa situazione comporta nelle vite personali, stravolte, come quelle di tutti, si aggiunge il fatto che noi siamo quelli che, quasi come i medici, non possiamo staccare dal lavoro, restare a casa e basta. Abbiamo il dovere del racconto. Abbiamo il dovere di esserci. Stateci vicini. Rmc 101 e Tp24 garantiscono un’informazione corretta, dura quando serve, verificata, e qualificata, con giornalisti in carne e ossa, una redazione aperta al confronto. Vi chiediamo di evitare le notizie false e la caccia alle streghe e all’untore, di costruire un clima di collaborazione e non di insulto, di contare fino a 10 prima di commentare, e fino a 20 prima di condividere qualcosa su WhatsApp. Siamo solo all’inizio: passata l’emergenza sanitaria (tre settimane? tre mesi?) ci sarà un Paese da ricostruire, un’idea di comunità. Non facciamoci trovare, ancora una volta, impreparati.