Matteo in missione nella capitale, tra piani di morte e dolce vita

Matteo in missione nella capitale, tra piani di morte e dolce vita

2023-04-17T17:40:41+02:00 17th Aprile, 2023|matteo va alla guerra|

E quindi partimmo per Roma. Matteo, che pensava a tutto, come sempre, ci diede un consiglio, prima di fare le valigie: «Abbigliamento adeguato». La cosa ci mise un po’ d’ansia. 

Come dice un vecchio adagio, puoi portare una persona fuori da un luogo, ma non un luogo fuori da una persona. Che avrà in testa il capo – pensammo – noi che siamo bravi solo a sparare, a strangolare, a prendere a lignate; non sono cose che si fanno con il vestito buono della domenica, né con le scarpe marroni: fai uno e basta, finisce lì, anche perché quasi mai è una cosa pulita, e poi i vestiti o sono sporchi di lanzo o di piscio – perché la gente, voi non lo sapete, ma quando la strozzi mica tira l’anima via in un colpo e amen! Quello si muove, si contorce, grida, vucia, e poi se la fa sotto perché, ricordatelo, è intessuto di merda l’animo degli uomini: quella esce, dopo l’ultimo rantolo. 

Non l’anima, non il vapore, non la voce degli angeli, ma, semplicemente, merda – oppure se dai fuoco a un’auto, o a una casa, e aspetti che la vampa si accenda e salga – e, cari miei, dipende come tira il vento – i vestiti si impuzzano, che il giorno dopo li puoi andare a buttare. 

Però Roma è Roma, ci siamo detti, e capace che nelle città grandi gli omicidi si fanno in abito da sera. Ma in realtà il nostro Matteo aveva un piano – ha avuto sempre un piano – ed era quello di farci fare la bella vita a Roma. Ecco perché ci voleva eleganti. 

Perché si andava nei bei locali la sera, e in bei negozi a fare shopping, nelle belle vie a passeggiare e a fare girare la testa alle ragazze; ma solo quello, perché avevamo una missione – elegante, sì, ma pur sempre una missione – tra gli sciacalli e le iene, gli uomini di potere, molti dei quali divenuti tali grazie a noi, che affondavano voraci i loro denti nella carne putrida di quella che chiamavano cosa pubblica. 

E c’era anche il nostro amico Francesco Geraci nella banda dei gitanti, il gioielliere, quello che una volta Matteo aveva aiutato per una vicenda di un’estorsione, e da allora gli era rimasto legato e aveva cominciato anche lui a partecipare agli omicidi, alla guerra, alle gite fuori porta. Ed era stato utile alla causa. 

Un giorno il signor Riina in persona lo aveva chiamato, e gli aveva detto: so che sei bravo picciotto, e amico di Matteo, e che hai una gioielleria; io ho un po’ di cose da conservare, non è che hai una cassetta di sicurezza, qualcosa per me? E lui gli aveva addirittura fatto costruire, sotto la sua gioielleria, un piccolo caveau, con tanto di ascensore, dove i Riina avevano messo di tutto: i collier della signora Bagarella, gli orecchini di Lucia, gli orologi Cartier, e pure delle spille di Italia ’90 tempestate di diamanti, e Geraci ci aveva confidato che, a occhio e croce, tutto questo bendidio valeva tipo due miliardi di lire. 

E un pomeriggio Matteo lo va a trovare e gli racconta del progetto degli attentati ai personaggi famosi. Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro, gli dice, in preciso ordine alfabetico, per non fare disparità. E se capita, anche Enzo. Biagi, aggiunge. «E per fare cosa?» gli chiede il gioielliere. E Matteo: «Dobbiamo creare scompiglio, caos, destabilizzare». Francesco sta in silenzio e poi gli dice: «Buono è». Geraci in effetti ci serviva per tantissime cose, ci completava. 

Anche questa, se ci pensate, è stata un’idea geniale di Matteo: non portarti, per una missione delicata, un tuo simile, un clone, uno che obbedisce e basta. Portati uno che sa cose che tu non sai, che aggiunge esperienza, know-how, come si direbbe nei corsi moderni dove si parla tutto in inglese. E in effetti ancora prima di partire Geraci ci disse: «Picciotti, io ce l’ho un posto dove possiamo andare a comprare roba buona per il viaggio». E il posto era Alongi, in centro a Palermo. Alta moda, roba fina. 

Solo lui spese circa 12 milioni di lire, roba da sticchio e quasette di seta. Oggi al posto di Alongi c’è un negozio che vende i mattoncini per le costruzioni, che costano quanto un abito da sera. Segno dei tempi, certo. […]. 

ROMA, 24 FEBBRAIO 1992 

E partimmo dunque per Roma, il 24 febbraio del 1992. In quel giorno, pensate, nasce in Italia la Protezione Civile. E noi ci sentivamo un po’ la protezione civile di Cosa nostra, corpi scelti per accorrere dopo un cataclisma, ma con idee più originali del piantare baracche e tende e si salvi chi può. 

A Roma non andavamo totalmente impreparati, perché qualche mese prima, in gran segreto, in estate, erano venuti a Roma Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella per seguire i movimenti del dottore Falcone e per capire se si poteva fare qualcosa. 

Per Bagarella era anche facile, dato che aveva il soggiorno obbligato proprio in provincia di Roma, a Monterotondo. E avevano scoperto dove il dottore mangiava solitamente la sera e che ogni tanto si faceva qualche passiata da solo, senza scorta. Poi Brusca era tornato, e aveva cominciato a fare altri sopralluoghi: ad esempio per capire a che velocità viaggiava l’auto del dottore Falcone in autostrada, quando dall’aeroporto doveva andare a casa sua a Palermo, in Via Notarbartolo. E un’altra squadra ancora, guidata da Raffaele Ganci e Salvatore Cangemi, stava invece studiando la possibilità di un attentato proprio sotto casa a Palermo, magari con un’autobomba. 

Partimmo ognuno con un mezzo diverso, piccoli accorgimenti per non dare nell’occhio. Che poi noi abbiamo sempre contato, oltre che sulla nostra organizzazione, anche sulla pigrizia di chi avrebbe dovuto controllarci. Ma si guardava dappertutto, tranne che in provincia di Trapani. E così Sinacori partì con l’aereo, e il biglietto lo fece un po’ storpiato: Vincenzo Rinacori, con la erre. Tanto bastava. 

Matteo, invece, al quale sarebbe bastata come lasciapassare la sua stessa faccia, aveva una carta di identità falsa, a nome Matteo Messina, e sì, si era sprecato anche lui a fantasia, ma ve lo diciamo davvero: nessuno si interessava a noi; era quasi per prendere per il culo tutti che cambiavamo iniziali e consonanti, quasi fosse La pagina della Sfinge della Settimana Enigmistica. Matteo, tra l’altro, venne in auto con Geraci. 

Altri ancora in treno. Ogni volta che partiva per il continente, Matteo rifletteva sempre su questo fatto, e cioè che il traghetto che faceva la spola tra la sponda siciliana e quella calabrese si chiamava Caronte. E si chiedeva se quel nome, di quel traghettatore infernale, lo avessero messo apposta o no. E man mano che il traghetto si allontanava dalla Sicilia, lui percepiva come un sipario leggero che si alzava, un fiato di estraneità. L’isola da una parte, e poi il resto del mondo. Anche se all’inizio era soltanto Calabria. 

Dunque, c’erano Vincenzo Sinacori e Renzo Tinnirello, detto ’u Turchiceddu, perché era scuro scuro di carnagione e sembrava proprio un turco, e poi Giuseppe Graviano e Fifetto Cannella, che tutti chiamavamo Castagna, perché preciso al presentatore televisivo. Dei Graviano vi abbiamo parlato? I fratelli Graviano erano i capi mandamento di Brancaccio, su decisione del signor Riina. 

Prima aveva messo a capo Benedetto, il fratello più grande. Poi, siccome non lo vedeva sveglio, gli aveva affiancato Filippo e Giuseppe. Prima ancora il mandamento era a Ciaculli, poi c’erano stati degli arresti, e il signor Riina aveva detto: questi di Ciaculli sono quelli che ci hanno portato sempre danno a Cosa nostra… Addirittura qualcuno lo avevo sentito dire che ci voleva portare un trattore, che voleva portare il paese tutto a suolo, diciamo. E quindi poi appunto aveva deciso così: questo mandamento non si chiama più Ciaculli, si deve chiamare Brancaccio. Giuseppe Graviano era legatissimo a Matteo Messina Denaro. E lo avevamo capito da alcune cose. 

Come quella volta che Matteo gli fa al nostro amico gioielliere, Geraci: «Mi devi trovare una collana per un regalo importante, una cosa che vale almeno cento milioni di lire». «Ma è per te, Matteo?». «No, per un amico. Ma i soldi te li do io». Ed era vero. La collana non era per lui, ma per Giuseppe Graviano, che la doveva regalare alla sua zita e aveva chiesto la cortesia a Matteo di vedere un po’ lui, tramite le sue conoscenze. 

Geraci trovò la collana e gli fece pure lo sconto: 50 milioni. Pagava Matteo. Graviano fece un figurone. E quando andò da Matteo per dargli i soldi che aveva anticipato, quello non ne volle sapere: «Ma stai scherzando? Noi siamo amici inseparabili». 

E dalle cave di Mazara era partito anche l’esplosivo che doveva servirci nel caso in cui avremmo voluto fare una cosa non pulita, ma di quelle potenti, con il botto. Matteo in quei giorni era inquieto. Prima parlava di Maurizio Costanzo e ci diceva che anche lui doveva saltare in aria perché in televisione parlava male dei mafiosi. 

C’era stata infatti questa cosa del commerciante ucciso a Palermo, l’estate prima, quello che faceva pigiami e non voleva pagare il pizzo, e Costanzo e l’altro, Michele Santoro, avevano fatto pure una puntata speciale, che manco se giocava il Palermo in coppa Uefa. Poi invece cercava di capire i movimenti del dottore Falcone, che in quel periodo aveva preso servizio al ministero della Giustizia. 

Poi ancora era convinto che gli agguati da fare erano tanti. E poi c’era questo Scarano, che nessuno di noi conosceva, e fu uno dei tanti conigli che Matteo, come un prestigiatore, tirava fuori dal suo cilindro. Non sappiamo come si erano conosciuti, ma dal momento in cui ce l’aveva presentato per noi era diventato uno dei nostri, come Geraci. 

Era calabrese, Scarano, ed era già stato in carcere tre anni per furto, e in carcere aveva conosciuto il boss Stefano Accardo, di Partanna. Ne era nata un’amicizia, e lui, dopo che era uscito, era andato anche a trovarlo, e si era fidanzato con una picciotta di Partanna. E Accardo gli aveva anche preso una casa al mare alla Triscina, tanto ormai erano amici, e gli aveva anche presentato Matteo, un giorno. 

E quando Scarano ci raccontava l’inizio di questa loro amicizia, diceva che, la prima volta che l’aveva visto, mica aveva capito che era ’u Siccu in persona; gli sembrava uno studente: magro, alto, con gli occhiali. Invece in poco tempo si ritrovò coinvolto nella guerra di mafia, con Matteo che gli aveva fatto fare anche due omicidi, giusto per provarlo sul campo. 

Era stato Scarano a trovare l’altro appartamento a Roma per noi, il secondo, dove andammo a stare dopo aver scoperto la topaia che era quella «bella sistemazione» che Agate ci aveva promesso e che invece sarebbe stata schifiata pure da una buttana di Campobello. Era stato sempre lui a nascondere le armi nel suo scantinato. E, come sempre, non sapeva nulla, se non che doveva obbedire a Matteo. E quando tutto fu sistemato, Matteo gli disse: ora vattene, e non tornare più qui. 

Se ho bisogno, mi faccio vivo io. Il primo appartamento romano era in Viale Alessandrino, e apparteneva a un dentista, La Mantia, che era originario di Mazara e amico di Mariano Agate. Manco a farlo apposta (o fu fatto apposta? ah, saperlo…), Mariano Agate aveva trascorso un periodo di soggiorno obbligato a Roma, e lì aveva incontrato La Mantia per avere poi l’appartamento. 

Solo che, minchia, arriviamo là, e ok, noi non è che volevamo l’appartamento extralusso con la Jacuzzi nella stanza da letto e il televisore a cinquanta pollici, ma, minchia, manco i cessi funzionavano! Manco acqua corrente c’era. E quando arrivammo tutti a Roma, ci demmo appuntamento alla Fontana di Trevi per confonderci tra i turisti, perché per noi quello era il posto turistico per eccellenza di Roma. E la prima questione fu quella dell’appartamento. 

Chi era arrivato un paio di giorni prima aveva fatto un’esperienza terribile, non si poteva stare. «Non vi preoccupate, c’è Gesù» disse Matteo. Qualcuno di noi pensò a un’improvvisa crisi mistica del nostro capo, che magari credeva in un Gesù tubista che miracolosamente allacciava acqua e corrente con una preghiera, ma in realtà apprendemmo subito che il Gesù di Matteo si chiamava Giacomino, ed era un altro siciliano a Roma, amico di Scarano, che ci venne presentato tra l’altro la prima volta da Matteo proprio di fronte alla Fontana di Trevi. 

E questo Giacomino Gesù, contattato da Matteo e Scarano, metteva a disposizione un appartamento con tre camere da letto, un bel salotto con le tende, sempre in una zona buona, e provvisto anche di una bella cucina, cosa che a noi importava poco perché avremmo sempre mangiato fuori, ma era meglio averla, no? La casa era della mamma di Gesù, che non sappiamo se si chiamava Maria, e avremmo magari potuto chiederglielo, però la signora era in Abruzzo da dei parenti e proprio per questo la casa era libera. 

Quel Gesù fu molto generoso con noi, e per sdebitarci gli regalammo un po’ di cocaina, così magari se la vendeva e ci tirava su due lire, o faceva un miracolo come il suo omonimo e la moltiplicava come con i pani e i pesci, e ci poteva campare una vita. Amen. E quindi una prima cosa era sistemata. 

Le armi e l’esplosivo ce l’avevamo sempre dietro, tipo coperta di Linus. Avevamo scelto tutto con cura, e siccome si trattava di cose importanti non poteva che essere la provincia di Trapani il posto dove cercare. 

E così da alcune cave abbandonate, tra Mazara e Castelvetrano, che utilizzavamo come magazzini per quando avremmo dovuto scatenare la guerra, venne fuori l’esplosivo, e poi le armi. Mitra, kalashnikov, fucili. Quindici pezzi, tutti ben conservati, unti di grasso, che ci abbiamo messo ore a pulirli con la benzina, la nausea che ci saliva in testa, e poi, siccome bisognava essere precisi, li abbiamo provati personalmente con Matteo, tra gli uliveti di Castelvetrano, con lepri e piccioni martoriati in nome della nostra efficienza. 

E Matteo aveva anche due pistole sue, belle cromate e nuove, e avrebbe voluto provare anche l’esplosivo, ma i mazaresi gli avevano detto che si poteva fidare, e andava bene così. 

About the Author: