La settimana scorsa è stata emessa sentenza da parte del Tribunale delle Misure di Prevenzione di Trapani circa la confisca dei beni per oltre un miliardo di euro al defunto Carmelo Patti.
Imprenditore di Castelvetrano, Patti aveva costruito il suo impero partendo dal nulla: era stato costretto ad emigrare in Lombardia, lavorava in una fabbrica che produceva frigoriferi, poi si è messo in proprio, poi è diventato così ricco da comprare la Valtur, poi è fallito. Infine sul suo regno si sono aperti gli occhi degli investigatori.
Patti non ha fatto un giorno di galera per mafia, è stato anzi assolto nel processo per mafia in cui era imputato, ma ciò non toglie che per lo Stato italiano gran parte della sua immensa ricchezza sia dovuta all’appoggio di Cosa nostra, come la sentenza del Tribunale racconta, dopo anni di perizie, testimonianze raccolte, esami di scritture contabili nel tempo.
C’è un momento storico preciso in cui Patti fa il suo salto di qualità, diventando da benestante, diciamo, a ricchissimo. Ed è quando, a metà degli anni ’80, comincia a lavorare per conto della Fiat, nel cablaggio delle automobili.
Cablaggio, che parola misteriosa. E infatti, fino agli anni ’90, quando qualcuno si chiedeva chi fosse Patti, la risposta era: quello che lavora con i fili della Fiat. Perché di questo si trattava, creare circuiti per collegare l’impianto elettrico dell’auto al resto.La vicenda l’abbiamo raccontata benissimo in un articolo di sabato (la potete leggere cliccando qui). Insomma, sappiate che nella vostra scassata Punto, come in altre macchine Fiat prodotte in quegli anni, c’è uno zero virgola qualcosa prodotto nel trapanese, prodotto da Patti, dai suoi lavoratori che annodavano stretti i fili di plastica rossa intorno al rame e alla plastica. Un lavoro molto semplice, che infatti, con un sistema fraudolento di scatole cinesi, le aziende di Patti facevano svolgere agli operai direttamente a casa.
Sono gli anni in cui Patti diventa quello che è grazie all’appoggio della mafia, dicono gli investigatori. Il suo commercialista è un anonimo professore che ha lui come solo cliente, ma ha anche un vantaggio sorprendente: la sorella ha dato una figlia a Messina Denaro, ne è in pratica il cognato.
Patti è forte grazie alla mafia, e cresce grazie alle commesse della Fiat, che ad un certo punto, in una fastosa cerimonia, presente anche l’avvocato Agnelli, gli consegna il “Premio Europeo per la Qualità”. E con gli Agneli poi Patti si allea per l’acquisto di Valtur.
A Patti, oggi, vengono confiscati quasi tutti i beni.
E a me sorge una domanda. E la domanda è questa: scusate, e la Fiat?
La Fiat non è stata mai lambita da alcuna inchiesta, sia chiaro. Ma io mi chiedo: al di là del piano giudiziario, perché la Fiat da tutta questa vicenda esce indenne? Possibile che ancora una volta dobbiamo credere che a Torino, ai piani alti del Lingotto, non sapessero chi fosse il loro fornitore di fili, terminali e conduttori?
E’ l’ora di porsela, questa domanda.
Perché io ci penso da tempo, a domande di questo genere, e ci penso a partire, da un altro precedente.
Che è quello della Despar.
Brevemente: quasi dieci anni fa tutto l’impero dell’imprenditore di Castelvetrano Giuseppe Grigoli viene sequestrato e poi confiscato. La sua storia è simile a quella di Patti: poverissimo, grossista di detersivi, diventa poi un uomo di grande successo nel campo della grande distribuzione. La sua enorme ricchezza, 600 milioni di euro, è stata ottenuta grazie a Cosa nostra. E’ non solo prestanome, ma addirittura socio di Matteo Messina Denaro. Nel periodo di massimo splendore, la sua azienda, la Gruppo 6 Gdo, era la prima srl siciliana, e aveva monopolizzato la Sicilia occidentale, Agrigento, Trapani e Palermo, con i supermercati a marchio Despar. Vi ricordate? Ci fu un periodo che un supermercato da noi era solo Despar. Tanto che Grigoli aveva il 10% dei titoli della Despar Italia Spa.
Grigoli è stato condannato, le aziende confiscate.
Ma io da allora mi chiedo, come faccio adesso per la Fiat: possibile che la Despar Italia Spa non sapesse? C’era questo tizio che apriva supermercati ovunque, in Sicilia Occidentale, senza concorrenza, con molti dei supermercati intestati a parenti di mafiosi. Dico: magariun dubbio non ti viene, su quello che sta accadendo, su questa grazia improvvisa, non certo dovuta alla congiuntura economica o al fiuto commerciale?
L’altro giorno leggevo una breve, strepitosa, considerazione. Non so di chi era, ma il senso era questo: in Italia non si può fare realmente opposizione. Perché? Perché ci conosciamo tutti.
Ed è vero. L’Italia è una grande provincia. Io posso dire la mia nel campo del giornalismo e dell’editoria, ci si conosce un po’ tutti, il giro è quello. Ma è lo stesso in politica. Ed è ancora di più vero in economia. Ci conosciamo tutti. Imprenditori, businessman, affaristi e “portarobbe”.
E allora, davvero alla Fiat nessuno ai piani alti si è chiesto chi fosse questo Patti che faceva annodare i fili o alla Despar nessuno si è mai chiesto se questa facilità di espansione in Sicilia avesse motivi diversi dal fiuto per gli affari di questo Pino Grigoli?
Potrei continuare. I lavori al porto di Trapani, nel 2005 e l’inchiesta collegata. I costruttori trapanesi Morici, padre e figlio, hanno pagato le loro influenze con Cosa nostra con il sequestro dei beni. La sentenza è di qualche settimana fa. Ma le aziende di Morici erano una parte del più vasto cartello di imprese che ha compiuto lavori pubblici per centinaia di milioni di euro in occasione dell’America’s Cup a Trapani. Eppure da questa vicenda le altre aziende, non trapanesi, partner dei Morici, sono uscite indenni. Possibile che loro non sapessero?
Un passo indietro nel tempo. Trapani, città della mafia economica, raccontavano i giornali fino agli anni ’90. Lo si vede dal numero di banche locali, dagli sportelli ad ogni angolo di strada, ci dicevano. E’ la ricchezza della mafia, era la sintesi. Cito un articolo di Repubblica del 2001, a proposito del boss di Trapani Vincenzo Virga: “L’ascesa nella gerarchia mafiosa di Vincenzo Virga, 59 anni, passa attraverso la sua abilità nel muoversi nella ragnatela di interessi finanziari che hanno trasformato Trapani nella città d’Italia dove è più alto il numero delle società finanziarie e degli sportelli bancari in rapporto alla popolazione”.
Caspita. Poi è successo che le banche trapanesi sono state tutte acquistate dalle grandi banche del nord, Trapani aveva cinque istituti bancari e non ne ha neanche uno. Ma quello che è più singolare è che gli stessi soldi, che prima, erano, secondo la comune narrazione, i soldi della mafia, perché gestiti da banche trapanesi, appena sono diventati i soldi di Unicredit, come di Banca Nuova, o di altri grandi gruppi sono, magicamente, considerati puliti. Non puzzano più di mafia.
Se la mafia è forte, è perché c’è qualcuno che forte l’ha resa nel tempo, che della mafia se ne è approfittato per fare i propri affari. E’ un dato storico. E antropologico: quattro caproni, violenti e stupidi, non possono mettere sotto scacco un’intera regione, se non c’è qualcuno che dall’esterno li aiuta.
Odio i discorsi meridionalisti, ma ormai ho la convinzione sempre più netta che la mafia siciliana, come tutta la criminalità del meridione, sia servita essenzialmente nel tempo a fare la fortuna di grossi gruppi imprenditoriali e politicii del nord, che hanno utilizzato la Sicilia come loro serbatoio, e la criminalità organizzata come forza di controllo. Nel migliore dei casi, questi grandi gruppi, queste grosse industrie, queste cooperative, queste multinazionali, queste banche, non sapevano. In altri casi facevano finta di non sapere. Nel peggiore dei casi sapevano ed erano complici.
Ormai abbiamo materiale sufficiente per ribaltare un paradigma. E’ una cosa che ho già scritto in un mio fortunato libro, “Cosa grigia”, che vedo sempre più spesso citato in convegni, articoli, conferenze. Le mafie sono cresciute nel sud Italia. Ma sono cresciute grazie a molti imprenditori del Nord che dell’aiuto della mafia si sono avvalsi e che pertanto la mafia stessa hanno alimentato.
Non è mafia, è liberismo, si dicevano mentre investivano i soldi dei mafiosi in Borsa,insegnavano come scalare società e racimolare azioni, spiegavano come trasformare quella rozza economia basata su terra, cemento e droga in qualcosa di più raffinato. C’era come la convinzione, in molti imprenditori, che fare accordi con la mafia in Sicilia era necessario, e anzi, non era male, dopo tutto, perchè i piccioli fanno i piccioli, e poi si tratta sempre di animal spirits, e il mercato, si sa, non conosce regole se non quelle del futti futti che Dio perdona a tutti.
Quando in pubblico cerco di spiegare tutto questo, soprattutto la responsabilità delle imprese del Nord nei confronti della crescita della mafia e dell‘impoverimento della Sicilia e del resto del meridione d’Italia, cito sempre un caso minore, ma significativo. La camorra è riuscita ad imporre ai supermercati campani i fornitori per la grande distribuzione. I grandi marchi, in altre parole, hanno fatto un accordo con la criminalità: pagavano i boss per essere presenti loro, e non i piccoli concorrenti locali, negli scaffali dei supermercati. In questo modo hanno conquistato fette importanti di mercato, ed eliminato la concorrenza. Schiavone, Sandokan, il clan Moccia, cito testualmente per un periodo “erano i più importanti soci di Cirio e Parmalat in Campania”. Avete letto bene: soci.
In conclusione. Oggi si dice: le mafie investono nel nord. Vero. Ma, prima ancora, è il nord che ha investito nella mafia. Un fenomeno volutamente sottovalutato, che ha alterato non solo la concorrenza, la libertà di impresa, ma anche tutto lo sviluppo economico del Sud. In nome dell’interesse di pochi.
Giacomo Di Girolamo