Voi non ci credete, ma i più sinceri e precisi biografi del dottore Falcone eravamo noi. Noi eravamo gli unici ad appuntare i suoi avanzamenti di carriera e i suoi successi, senza invidia, senza ragionare sul personaggio, concentrandoci su quello che faceva, perché per noi era la prima regola, come la mamma ci aveva insegnato: bisogna conoscere il nemico, poi bisogna dargli un prezzo, perché tutti hanno un prezzo, poi, infine, comprarlo.
E se non si può comprare, allora bisogna conoscerlo meglio, perché i primi a essere in vendita sono quelli che ti dicono che «la libertà non ha prezzo», eccetera, e tutti hanno un prezzo, perché tutti, semplicemente, desiderano; e a chi non gli piacciono le femmine gli piacciono gli uomini, o magari gli animali, o magari giocare a carte la sera e mangiarsi lo stipendio e il villino a Mondello.
Non dovete pensare che era difficile, anzi, era pure economico. Perché noi lo avevamo capito da subito: corrompere un giudice può costare caro la prima volta. Dalla seconda in poi, è gratis.
E quindi Falcone lo seguivamo, quasi gli facevamo la corte, da quando si unì al gruppo voluto dal dottore Rocco Chinnici a Palermo, per fare il pool antimafia – come lo chiamavano. E poi dopo che a Chinnici i palermitani gli hanno messo la bomba, ecco spuntare Antonino Caponnetto, e il dottore Falcone sempre lì. Questa cosa del pool a noi aveva cominciato a preoccupare, sempre per quel fatto che noi come Cosa nostra eravamo prima di tutto criminalità organizzata, e in questo aggettivo c’era tutto.
La magistratura, invece, era disorganizzata, per usare un eufemismo. Ognuno che si faceva i cazzi suoi, colleghi che si odiavano, magistrati che si imboscavano, o che pensavano a sistemare le amanti. Quelli, invece, quelli del pool, avevano cominciato a ragionare come… la criminalità organizzata! Si davano i compiti, condividevano le informazioni, mettevano insieme le carte. E così, mettendo insieme i fatti, arrivarono a capire che non c’erano bande in sciàrria, a Palermo, ma famiglie unite, con un capo, un quartiere o un paese, e i capifamiglia, e i capiprovincia.
Ci hanno fatto i raggi X, quelli del pool. Adesso anche loro giocavano di squadra come noi. E studiavano i fatti di prima, e i fatti di dopo, e le minchiatine come le cose serie. Cominciarono a occuparsi meno degli omicidi e più dei soldi, e a fare vai e vieni dalla Svizzera, come dall’America.
E si arrivò a questo rapporto di carabinieri e polizia, anche loro insieme, del 12 luglio 1982, con la storia di Michele Greco e di altre 160 persone, con gli omicidi, la droga, le estorsioni. Tutto messo insieme.
MASINO BUSCETTA IL “TRAGEDIATORE”
L’Italia festeggiava la Coppa del mondo che avevamo vinto il giorno prima ai Mondiali in Spagna, contro la Germania. E loro anziché scendere in piazza e fare casino, che ogni tanto per finire e firmare quell’inchiesta. E poi ci furono altri rapporti, altre indagini; ci si mise pure la Finanza a fare accertamenti. Ecco perché i palermitani decisero che era il caso di uccidere il dottore Chinnici. Ma non servì a nulla.
Anzi, quelli continuavano più di prima: arrivavano alla Spagna, ai gruppi napoletani, ricostruirono omicidi, scoprirono la camera della morte, come la chiamarono i giornali, che poi era il posto dove interrogavamo e poi torturavamo le persone.
E i giornali cominciarono a parlare degli incaprettamenti, che prima si strozzavano le persone, e dopo gli si faceva passare la corda attorno al collo e gli si piegavano le gambe, a tirare, che lui, pure magari se era ancora vivo, non poteva muoversi. E poi si misero addosso ai cugini Salvo, quelli di Salemi, e per un attimo ci tremarono le gambe, che se la cavalleria entrava nella nostra provincia, in quel momento, ci trovava tutti impreparati.
Ma noi non interessavamo, per fortuna: è come a Monopoli, quando ti fermi su un terreno e non lo compri, poi magari ti penti perché scopri che era invece strategico per la vittoria… E quindi ci fu «Pizza connection», che fu un terremoto per le famiglie americane, e le indagini si spostarono sui catanesi e il giro di droga dal medioriente. E se tutto questo sembrava tanto, il peggio doveva ancora arrivare. E arrivò con un aereo.
Il 14 luglio 1984. Non era l’aereo che negli stessi giorni aveva portato Diego Armando Maradona da Barcellona a Napoli, nel tripudio della città intera. Questo aereo veniva dal Brasile. Portava uno dei nostri che era stato arrestato, e che aveva deciso di parlare.
Si chiamava Masino Buscetta. Due giorni dopo già riempiva verbali. Su Cosa nostra, la guerra, i Corleonesi. Un tragediatore. Anche qui, dobbiamo precisare una cosa. Buscetta non era il primo che cantava. È diventato il più famoso, certo, ma come lui, tragediatori, ce n’erano stati a decine, prima. Altri uomini che avevano tradito gli amici, la loro famiglia e se stessi cantando con la polizia.
Non c’era stato ad esempio Giuseppe Di Cristina, che pareva che non trovava pace se non fermava i Corleonesi, e aveva cantato tutto a un carabiniere, nel ’78? Gli aveva spiegato per filo e per segno cosa avevano intenzione di fare, quanto erano diversi: oggi la definiremmo una «variante più aggressiva di Cosa nostra». Ma non fu ascoltato.
La vera novità, adesso, è che per la prima volta c’erano orecchie intente ad ascoltare, c’era qualcuno che verbalizzava non per cestinare od occultare, non per riempire di omissis o depistare, ma, davvero, per prendere appunti, capire, cercando una sintonia. Fino al mandato di cattura del 29 settembre 1984: Abbate Giovanni + 365. In pratica uno per ogni giorno dell’anno.
Lo chiamarono «blitz di San Michele», perché era la festa di San Michele Arcangelo, quello con la spada, che era un po’ il nostro protettore, e invece giusto giusto andò a capitare quel giorno. Noleggiarono anche un aereo, un Dc-9, per portare gli arrestati in carcere. Ai tempi lo Stato era capace anche di quello. Oggi invece neanche c’è la benzina per le volanti, altro che aerei. […]