Quando muore uno famoso, che so, un musicista X, il luogo comune della sofferenza social vuole che si formuli la frase: “Addio X, adesso sei nel cielo a suonare tra gli angeli“.
Quando muore un altro, sempre famoso, che so, un attore Y, idem: “Addio Y, adesso sei in cielo a recitare con gli angeli”.
Bernardo Provenzano, noto boss mafioso, morto ieri, ha recitato molte parti in vita sua, ma attore non era. E circa i gusti musicali, parla per lui la musicassetta con le canzoni registrate dei Puffi (“Noi puffi siamo così / noi siamo i puffi blu…”) trovata tra le altre cianfrusaglie nel suo covo a Montagna dei Cavalli, vicino Corleone, quando fu arrestato nel 2006 dopo mezzo secolo di latitanza indisturbata.
E poi, ovvio, Bernardo Provenzano in cielo non ci va. Va all’inferno. Una bestemmia pensare anche solo il purgatorio, per lui. Inferno, punto e basta. Tra i tanti commenti e tweet, e le dichiarazioni e le reazioni che in queste ore hanno come tema la morte di Provenzano, la maggior parte echeggiano proprio le fiamme dell’inferno per il più cattivo dei cattivi, o si avventurano in ricostruzioni del tipo: “Adesso ti accoglierà il sorriso di Don Pino Puglisi…“, “potrai guardare Falcone negli occhi e provare vergogna…”, fino ad un politico, non mi ricordo chi (perdonatemi, ma parafrasando una famosa battuta dell’attore Massimo Troisi: sono un milione i politici esperti di mafia in Italia e io sono uno solo a leggere le loro dichiarazioni,,,): “Chissà se rinnegherà il male fatto in terra”.
Questa deriva trascendentale, oltre che essere cartina di tornasole sull’andazzo molto new age dell’antimafia, ci fa capire anche quanto la morte del carissimo nemico Provenzano rischi di diventare un trauma. Soprattutto se non cominciamo a lasciare le cose spirituali a chi ne ha competenza, e ad occuparci di cose terrene, quale ad esempio la mafia è.
Adesso che il grande nemico è morto, larva che era, raggomitolato nel letto in ferro di un ospedale, devastato dal tumore, dall’Alzheimer, e da tutti i segreti che si portava dentro e che se lo sono masticato e lo hanno corroso come succhi acidi, adesso che Bernardo Provenzano non c’è più, proviamo a ragionare?
Proviamo cioè a rimettere in discussione molte delle nostre convinzioni, del linguaggio, degli stereotipi quando parliamo di mafia?
E’ morto un pezzo di merda, si dirà. Qualcuno magari lo ha già scritto. Una cosa volgare, anche banale, di poco coraggio, per di più noiosa. Tipo: piove, governo ladro. Ecco: piove, Provenzano pezzo di merda.
E se provassimo invece con Provenzano a seppellire tutti gli slogan e le frasi fatte su mafia e dintorni? Finisce un’era, con la sua morte. Come con Andreotti. Appendice sarà la morte prossima di Riina, appendice ancora la cattura di Messina Denaro, se non l’hanno già ucciso o se non è morto, di suo.
Per una volta, allora giochiamo d’anticipo. Facciamo che sono tutti morti, usciti di scena, e ragioniamo sul dopo, senza farci trovare impreparati, quando il “dopo” arriverà. Perché per arrivare, arriva: è solo questione di tempo.
Adesso che è morto Provenzano, per esempio, lo possiamo dire che il trattamento che lui ha ricevuto nell’ultimo scorcio della sua vita (era incapace di intendere e di volere da alcuni anni, e da un po’ di tempo in stato vegetativo) è stato disumano? E non c’entra nulla il fatto che stiamo parlando di una persona che ha fatto della disumanità un tratto della sua vita criminale. Sia chiaro: la morte è una pace che Provenzano non merita. Ma noi non siamo lui. Noi non siamo mafiosi. Noi non siamo loro. Noi siamo lo Stato. Non siamo Cosa nostra, siamo un’altra cosa. E nell’economia della lotta alla mafia il carcere duro a Provenzano negli ultimi anni non è servito a nulla, neanche a mostrare i muscoli. Fare morire così un uomo. Siamo questi, noi, quelli dell’antimafia? E se abbiamo questo concetto di diritto che si autolegittima da se, in quanto “diritto dei buoni”, e quindi diritto che scavalca le regole, dato che ci è piaciuto tanto, vederlo morire in questo, perché non lo abbiamo impiccato, allora, quando lo abbiamo preso? Vi fa orrore il pensiero di una pubblica esecuzione in piazza? Ma quella che Provenzano ha subito non è una morte anche peggiore?
Adesso che è morto Provenzano, possiamo ragionare sull’utilità del carcere duro? Attenzione – sempre attenzione, qui non ci sono slogan, c’è complessità di pensiero – non sto dicendo cancellare, ma rivedere, calibrare meglio. Negare ad un uomo le cure, le visite dei familiari, un triangolo di cielo da sbirciare, è funzionale alla lotta alla mafia? Ha avuto un senso, certo, quando lo Stato aveva bisogno di fare capire alla mafia che faceva sul serio. Il 41 bis, il carcere duro, è una misura tecnicamente emergenziale. Ma è anche incostituzionale. Anche perché il risultato qual è? Che adesso c’è una generazione di boss che sta marcendo in galera, e tutto un esercito di neo – mafiosi, come dovremmo cominciare a chiamarli, che fanno quello che vogliono, perché in galera non ci vanno più. Gli uomini del caporalato che riducono in schiavitù altri uomini, i boss dele cooperative che fanno affari sulla disperazione dei migranti, i signori della sanità, quelli dell’energia rinnovabile, i maghi delle truffe allo Stato, quelli del doppio petto, del gessato, delle cravatte sempre efficaci. Tutti organizzati in nuove associazioni criminali che agiscono alla luce del sole.
Adesso che è morto Provenzano, qualcuno vuole fare, per favore un secondo nome? No, nomi di boss, no. Troppo facile. Un nome, un nome per per capire chi sono gli “altri”, quel volenteroso esercito che il boss ha sempre usato e dal quale è stato usato nella sua folgorante carriera criminale. Tra questi ci sono quelli che Enrico Bellavia, nel suo ultimo “Sbirri e padreterni” chiama i “guastatori”. Giornalisti, parlamentari, pubblici ufficiali magistrati, che nella tormentata guerra a Cosa Nostra hanno manomesso e omesso, per cambiare la storia, o per farla correre senza creare danno: “Il loro libro è bianco, la loro coscienza nera, il gioco sempre doppio e lo specchio trasparente”. Tra i guastatori, che sono anche facilitatori, ci sono quelli che hanno le colpe più gravi: coloro che hanno permesso che un’improbabile armata di cafoni dalle campagne palermitane tenesse sotto scacco la Sicilia e l’Italia per anni, e che hanno garantito a Provenzano stesso mezzo secolo di latitanza tranquilla. Sappiamo tutto di Provenzano. Nulla di chi lo aiutato davvero, di chi lo ha utilizzato.
E chi ci dice che Provenzano sia all’inferno, e nell’ultimo dei gironi? Cosa sappiamo del boss: che con Riina era fratello e un po’ nemico, che hanno scannato molti cristiani, e che avevano molte cose in comune ma una grande differenza. A Riina piacevano le bombe, gli attentati, le stragi, il sangue. Provenzano pensava che era meglio invece non farsi notare, stare il più possibile sommersi, per non suscitare troppa attenzione. Tant’è che dopo l’arresto di Riina, Provenzano ha deciso di non far più muovere una foglia, all’interno di Cosa nostra, ed ha tirato indisturbato altri tredici anni alla guida della mafia. Ecco, questa strategia “non belligerante” di Provenzano quanti morti ha evitato? Magari c’è un mondo parallelo dove c’è un altro Dio, che ringrazia Provenzano per le stragi che non ha fatto, le vite che ha salvato. Lo scrivo perchè la realtà è sempre complessa, non possiamo ridurla a schemi facili, a paradisi dove prendere il caffè con San Pietro, e gironi danteschi, o ancora, a lezioncine da imparare a memoria, frasi da mettere sugli striscioni o sulle magliette da indossare al corteo.
Adesso che è morto Provenzano, perché non cominciamo ad interrogarci allora su questo modo di raccontarci la mafia che abbiamo? Facciamo che Provenzano se lo è inghiottito un buco nero. Facciamo che il buco nero si è mangiato lui, la cicoria, i pizzini, le bibbie con i codici, le cassette dei Puffi, le mutande sporche – pure quelle il buco nero si è mangiato, le mutande sporche che mandava a farsi lavare – le coppole, le lupare. Facciamo che è tutto morto. Ecco, cominciamo a raccontare il resto. I “guastatori” di cui parla Bellavia, ad esempio. O il contesto. Non lo abbiamo fatto quasi mai. Perchè c’era Provenzano, appunto, e c’erano quelli come lui, la sua gente. E noi su loro ci siamo concentrati. Loro erano brutti, sporchi, cattivi. Erano quelli a cui dare la colpa. Quelli da guardare, indicare, biasimare.
Quelli che facevano sentire migliori.
Adesso u zi Binnu non c’è più, che u zi Totò ha un piede nella fossa, che Matteo u sicco non si vede in giro da un po’, chi guarderemo?
Di questo passo saremo anche noi inghiottiti dal nostro buco nero: non avremo nessuno a cui dare la colpa. Saremo costretti a guardarci allo specchio.
E’ morto Provenzano, viva Provenzano. Ci ha permesso di sentirci migliori. Adesso, però, proviamo ad esserlo, da soli, migliori. Senza Binnu.
Recuperando un senso delle cose nel nostro “fare” antimafia, e anche un senso nelle persone che la “fanno”, l’antimafia. Bernardo Provenzano sta all’inferno, forse. Noi siamo nell’inferno a binario unico dei viventi. Che è sempre quello descritto da Marco Polo al Kublai Khan: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.