L’ultima grana del M5s è lo scontro televisivo tra il pm antimafia Nino Di Matteo, oggi al Csm, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.
Domenica sera durante Non è l’Arena su La7 il magistrato, da sempre bandiera del M5s, ha accusato il guardasigilli di non averlo nominato nel 2018 alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per non dare un dispiacere ai boss mafiosi detenuti.
«Nel 2018 il ministro mi chiese se ero disponibile ad accettare l’incarico di capo del Dap o in alternativa quello di direttore generale degli Affari penali, il posto che fu di Falcone», ha detto Di Matteo.
«Io chiesi 48 ore di tempo per dare una risposta. Nel frattempo, alcune informazioni che il Gom (Gruppo operativo mobile) della polizia penitenziaria aveva trasmesso alla procura antimafia e anche al Dap avevano descritto la reazione di importantissimi capi mafia: se nominano Di Matteo per noi è la fine».
A capo del Dap fu poi nominato quel Francesco Basentini che quattro giorni fa s’è dimesso. La replica di Bonafede è arrivata in diretta tv: «L’idea che io abbia ritrattato la proposta a Di Matteo non sta né in cielo né in terra. È una sua percezione». Ieri Giorgia Meloni ha chiesto le dimissioni del ministro della Giustizia, difeso dal Pd per bocca di Andrea Orlando. Il premier Giuseppe Conte ha chiamato per rinnovargli la fiducia e ribadirgli il pieno appoggio nel suo operato.
«Si consuma una frattura insanabile fra il mondo dei 5 Stelle e l’antimafia. Bonafede, che da ministro attira su di sé critiche e a volte ilarità, va allo scontro con un simbolo dell’antimafia dura e pura. Non sarà facile per lui reggere il confronto. Può solo sperare che la nomina di Dino Petralia al Dap e di Roberto Tartaglia come vice plachi la polemica tenendo conto che Tartaglia assieme a Di Matteo rappresentava l’accusa al processo palermitano sulla Trattativa. Sarebbe imbarazzante, soprattutto per loro, il fatto di essere stati scelti da un ministro che ha “scartato” Di Matteo perché la sua nomina non era gradita ai boss» scrive Il Foglio.
E oggi, Mattia Feltri, su La Stampa:
La scorsa legislatura, non so più quale ragazzaccio dei cinque stelle s’alzò in Parlamento a consegnare al Pd il titolo di partito della mafia. Nella sollevazione sdegnata dei destinatari, rimane indimenticabile la cera esterrefatta di Rosy Bindi, una vita trascorsa, col volenteroso sostegno dei colleghi, a dichiarare mafioso questo e quello, Andreotti, tutta la vecchia Dc, Berlusconi, i suoi alleati in odore di concorso esterno in governo mafioso. Adesso l’esterrefatto di turno è proprio un ragazzaccio dei cinque stelle, Alfonso Bonafede, promosso a ministro della Giustizia perché nello stringato curriculum vantava la qualifica di onesto, e d’improvviso additato al popolo da Nino Di Matteo, pm feticcio della via immacolata al potere, e per quella via arrivato al Csm. Senza vincolarsi a concetti inafferrabili tipo la nemesi, considerata la sceneggiatura e i protagonisti, succede che il pm feticcio va alla trasmissione di Massimo Giletti e butta lì che forse, chissà, stai a vedere, la sua mancata nomina alla direzione delle carceri dipese dalla disapprovazione dei boss, cui Bonafede fu forse sensibile. Al di là del curioso approccio del dottore Di Matteo alle notizie di reato, indagate due anni dopo in favore di telecamera, e dell’eterna e sottovalutatissima tiritera del più puro che ti epura, a incantare è la velocità con cui i nemici del governo, interni ed esterni, hanno trasformato in verità l’illazione, cioè l’identico meccanismo per cui Bonafede è diventato ministro della Giustizia. Il peggiore nella storia delle democrazie occidentali, ma se vince Di Matteo, ricordarselo, senz’altro migliore del prossimo.